La storia del nome è un’attività creativa descritta nel mio libro “Il Metodo Autobiografico Creativo con la Tecnica della fiabazione” (l’immagine in copertina è un’attività analoga, basata sul collage della storia fantastica). In essa confluiscono le esigenze di base, legate alla narrazione autobiografica per la consapevolezza di sé. Conoscere il significato del nome, cosa per nulla scontata, è, infatti, il primo apprendimento su di sé, poiché in esso converge tutta la storia personale e familiare del protagonista. Così, sapere perché si porti quel nome e non un altro, chi lo abbia scelto per noi e come ognuno si ritrovi con i suoi tanti significati, storici e semantici (con quali più e con quali meno), introduce alla riflessione sui vissuti e sulle relazioni.
La storia del nome
In alcuni casi, leggere di sé smuove emozioni forti che fanno commuovere. Ma non dimentichiamo che queste attività nascono all’interno di percorsi per la sviluppo dell’intelligenza emotiva attraverso la presa di consapevolezza della storia personale. Percorsi che hanno come obiettivo, tra gli altri, anche l’alfabetizzazione emotiva, nel senso di assegnare il giusto nome a quello che si prova. Proprio perché il primo apprendimento è quello che ci lega alle nostre emozioni e a sentimenti che, il più delle volte, non conosciamo.
In altri casi, la maggior parte, in verità, la ricerca ruota intorno ad aneddoti che vengono narrati, con il sorriso, come delle “gag” da commedia familiare, che diventano momenti di alleggerimento per i partecipanti che contribuiscono a fortificare il clima di coesione del gruppo.
La storia del nome di Valentina è un esempio di questa seconda tipologia di narrazione autobiografica.
Perché mi chiamo Valentina?
Valentina significa forte e sana. A guardarmi ora so che in qualche maniera mi rispecchia ma mi fa sorridere pensare che, all’epoca dei fatti, quel nome mi sia stato assegnato in una condizione che lasciava presagire tutto il contrario: mia madre, allora quarantaduenne, si era convinta di avere in grembo una bimba down, sulla base dell’alta percentuale di casi in gravidanze in età avanzata.
Insomma, se la stava chiamando.
Anzi, senza nulla togliere, “me” la stava chiamando al punto che, ormai, ne aveva la certezza quasi matematica. Tanto più che alla nascita – e inspiegabilmente, dato che ora non rimane traccia di quella caratteristica – sfoggiavo dei lunghissimi occhi a mandorla.
Chiusa la melodia di urla e strepiti del parto e avuta sua figlia in braccio, mia mamma chiese al suo ginecologo:
“Dottore, mi dica la verità, mia figlia è malata?”
Il ginecologo la guardò severo e rispose:
“Non dica fesserie, signora. Sua figlia è sanissima: malata è lei!”
Forte e sana
Forte e sana, dunque. Ma questo aneddoto è solo una parte della storia, alla quale va aggiunto il resto.
Il mio nome non è stato mio da subito. Forse per questo non me lo sono mai sentito calzare addosso in maniera degna. Il mio nome, avvolto in un bigliettino, ha, infatti, riposato insieme ad altri all’interno di una ciotola. Ognuno dei miei familiari voleva darmi il nome che più gli piaceva, al punto da innescare una competizione la cui risoluzione fu affidata alla casualità dell’estrazione di un fogliettino.
Da quello che mi hanno raccontato all’età della ragione, lo scopo era di evitarmi la malaugurata sorte che mi venisse dato il nome di mia nonna (Gavina) o quello di una zia molto “pia” (Grazia). Mi scuso per ciò che sto per affermare ma nutro un profondo disprezzo per quei due nomi, che ho sempre definito ridicoli, con picchi isolati di vero e proprio raccapriccio.
Nell’apprendere in seguito la vicenda, sono perfino stata d’accordo con le intenzioni di mio padre, visto che con lui mai più ho potuto vantare una coincidenza di vedute. Infatti, lui stabilì con fermezza che, qualora fossi stata chiamata con uno di quei due nomi, tanto sarebbe valso scaraventarmi fuori dalla finestra. Compito che egli stesso si sarebbe incaricato di compiere, per amor mio e del buon gusto.
I miei quattro fratelli, tutti già adolescenti, indissero allora la cerimonia del sorteggio. Non è dato sapere ancora come ma una di loro, la sorella maggiore, barò. Così il bigliettino estratto fu il suo.
E non per volontà del fato, ma per la sua, si decise che mi sarei chiamata Valentina.
Forte e sana.
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