Detta con parole semplici, l’empatia è la capacità di mettersi nei panni degli altri. E’ il termine con cui le neuroscienze indicano lo stato mentale che interessa l’abilità di un individuo di immedesimarsi in un’altra persona in modo diretto ed esperienziale, fino a coglierne gli stati d’animo, le emozioni e i pensieri. Spesso e impropriamente confusa con la simpatia, l’empatia è un’attitudine innata ma che, in realtà, varia per intensità da soggetto a soggetto. In assenza di patologie, essa dipende dall’indole, dalla sensibilità, dalla storia personale, dalla cultura, dalla formazione e, secondo scoperte relativamente recenti, anche dal sesso (le donne avrebbero una spiccata dote in tal senso, molto più sviluppata che negli uomini).
La scienza della comprensione
Uno dei primi studiosi a descrivere l’empatia (letteralmente, sentire dentro) fu Edward Titchener, il quale nel primo decennio del secolo scorso cercava proprio un temine, distinto da simpatia (letteralmente, sentire insieme, tradotta anche come benevola compassione che non comporta condivisione), per definire il mimetismo motorio tipico dei processi automatici di imitazione somatica
- delle espressioni del viso,
- della voce,
- della postura e
- del movimento
di un’altra persona e, di conseguenza, di sincronia emotiva con essa, nota come contagio emotivo.
Con l’introduzione degli strumenti di neuroimaging, fu possibile attribuire una base neurofisiologica all’empatia nell’interazione tra diverse regioni cerebrali:
- il cervelletto,
- la corteccia cingolata mediale anteriore,
- il sistema limbico e
- l’insula.
Sono, infatti, dovuti alla presenza di lesioni in queste aree:
- i disturbi della regolazione delle emozioni,
- la mancanza di interazioni sociali,
- l’apatia (lo stato di indifferenza verso il mondo circostante, di inerzia fisica oppure di mancanza di reazione di fronte a situazioni che normalmente dovrebbero suscitare interesse o emozione).
Le conseguenze di tali danni cerebrali sul piano del comportamento sono devianza e prevaricazione sociale.
I neuroni specchio
A questi processi di identificazione empatica (e della loro disfunzione) concorre anche la scoperta di neuroni specializzati, osservati per la prima volta, alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, nei primati e denominati dall’equipe del Prof. Giacomo Rizzolatti neuroni specchio.
L’equipe dell’Università di Parma assegnò questo nome proprio perché la loro attivazione per imitazione, del movimento e anche della sola intenzione del movimento, agevola la comprensione delle azioni di altre persone, anticipandole e prevedendole, e, quindi, l’apprendimento dall’esperienza.
Di conseguenza, essi sono implicati nell’imitazione anche degli stati mentali delle altre persone e delle emozioni che provano e rappresentano una delle più importanti scoperte degli ultimi decenni nell’ambito delle neuroscienze.
Il loro malfunzionamento, peraltro, oggi si rivela utile nella comprensione anche dei processi patologici in pazienti psichiatrici di cui si dice che “hanno lo specchio rotto“. Grazie ai neuroni specchio, infatti, sappiamo che, quando essi funzionano male, si assiste alla totale mancanza di empatia e di comunicazione emotiva (i soggetti autistici, ad esempio, non riescono a riconoscere volti che esprimono un’emozione o ad adottare il punto di vista dell’altro).
Qual è la funzione dell’empatia?
L’empatia, come comprensione profonda degli altri, è una competenza fondamentale nelle interazioni sociali e serve per intrattenere rapporti soddisfacenti e gratificanti. Oggi, tuttavia, mentre corriamo verso specializzazioni professionali sempre più alte, abbiamo dimenticato quanto sia utile sviluppare le competenze di base, quelle emotive, che, così, andiamo via via perdendo.
Essa, infatti, rimanda in maniera determinante al riconoscimento delle emozioni, prima nostre e poi degli altri. Da cui dipende la qualità della nostra comunicazione e delle nostre relazioni. Per questo tale capacità può essere allenata prima che si atrofizzi, come accade per i muscoli che non vengono stimolati per lungo tempo. Solo che, mentre ci tuffiamo a capofitto nel fitness per allenare il nostro corpo, sempre meno ci prendiamo cura della salute della nostra mente.
L’empatia oggi
Io mi auguro che la coscienza sociale che ancora conserviamo voglia cambiare la cultura delle relazioni.
Quanto ci sia bisogna di questo lo hanno capito tutti. Anche le società di marketing, che vivono di relazioni e della fiducia dei clienti, le quali preparano i loro consulenti proprio in corsi improntati alla creatività, al benessere e alle emozioni. Conoscere, infatti, i comportamenti dei consumatori, che acquistano sulla spinta emotiva, permette di prevederne le scelte e, di conseguenza, di anticiparle e condizionarle. Per questo ci fanno compilare tutti quei questionari che ci fidelizzano alla aziende da cui acquistiamo abitualmente.
Lo ha capito anche la scuola che, con la legge 107/2015, riserva ampio spazio alle attività creative e all’alfabetizzazione emotiva che ad esse è strettamente collegata.
La domanda è: a che punto siamo?
Daniel Goleman sostiene che avremmo uomini migliori se i genitori insegnassero l’educazione ai loro figli con intelligenza emotiva. I bambini diventano più empatici e comprendono meglio le loro azioni se vien detto loro:
- “guarda come hai fatto soffrire il tuo amico”, invece di
- “è stata una cattiveria”.
Ci ritornerò, anche per trattare la difficoltà empatica nei comportamenti devianti e antisociali come il bullismo. L’argomento merita una trattazione a parte, accorta e approfondita.
Una cosa però mi sento di affermare subito: le risposte non vanno cercate nel futuro ma nel passato. Da lì e dai valori dovremmo ripartire per costruire un mondo migliore.
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Caro Stefano è proprio così, la scienza ci concede la possibilità di fare scoperte importantissime che alzano il velo su comportamenti che prima erano dettati dal buon senso , da una capacità innata, da un educazione familiare o scolastica. Ora grazie ad essa non abbiamo più scuse, per quanto la freddezza del quotidiano voglia strozzare questa possibilità di ascolto, assenza di giudizio e immedesimazione equilibrata siamo sempre più chiamati alla presenza e alla volontà per acquisire o non perdere questa nobile virtù umana. Anaffettivitá e alessitimia credo che siano due delle piaghe virulente che stanno incatenando l’Occidente. Non è un caso che il nostro capo, sede del cervello, strumento dell’attività pensante sia così protetto e che invece il torace abbia questa forma metameriaca e socchiusa, come una porta, attraverso cui si va verso il mondo, l’altro, e ci si riituffa in se stessi in un continuo pulsare del cuore e in un cullante o appassionante respiro grazie ai polmoni. Questo ritmo va educato dall’infanzia attraverso l’imitazione di adulti liberamente empatici, capaci di riscaldare attraverso la scintilla della creatività, della praticità e dell’arte. La moralità scevra da precetti ma capace di realizzarsi nell’immanente con immaginazione, intuitività e fantasia può essere concquista al pari della sensibilità estetica incontrandosi proprio lì nel cuore, luogo dell’arte, insieme con una scienza che sempre più ha necessità di riconquistare umanità e dare vita ad una rinnovata religiosità.
Caro Angelo,
i tuoi commenti sono dotte dissertazioni. Chi si spende molto, come me, per diffondere e condividere quello che sa e fa in modo sempre nuovo apprezza molto chi, come te, spende un minuto in più del suo tempo per mettere la propria cultura a disposizione di una, si fa per dire, semplice risposta.
Grazie.
Stefano