Vivere in armonia con le proprie emozioni, anche se a volte non sono quelle che vorremmo vivere. In realtà, per natura, siamo portati a rifuggire pericoli e paure, più che perseguire la felicità. Per questo si dice che “la felicità è un attimo”, mentre le emozioni negative, come paura e rabbia, finiscono per prendere il nostro tempo e covano a lungo in noi. Tuttavia, senza l’infelicità non esisterebbe la felicità. Non intendo dire che occorre perseguire lo sconforto per valorizzare la gioia. Ma solo che occorre sperimentare tutte le emozioni, ciascuna con le proprie sfumature, per essere sicuri di padroneggiare codici espressivi che diventano ascolto, capacità empatiche, relazioni sincere e vita in armonia.
Vivere in armonia con se stessi
E’ un toccasana per la salute dell’individuo e per le sue relazioni. Cosa, quest’ultima, non meno importante, data l’incidenza della qualità delle relazioni nella qualità della vita di ognuno. È notorio, infatti, che relazioni gratificanti rendano più felici. E che essere felici è, prima di tutto, un atto egoistico come amare: non si può amare qualcun altro senza amare prima se stessi. Può essere che quest’affermazione non incontri il favore di tutti. Allora, mi spiego meglio. Che succede a chi si spersonalizza, si annulla per l’altro?
Il concetto di bisogno
Cosa si nasconde dentro la frase “ho bisogno di te“? Perché io posso, in modo sano e adulto, pensare che “la mia vita sarà migliore accanto a te” ma mai che essa dipenda da te. I bisogni sono, infatti, quelle cose di cui non possiamo fare a meno. Le stesse da cui dipendiamo. Respirare, nutrirsi, dormire. Questi sono bisogni. Se, infatti, non respiro, muoio. Anche se non mangio o se non dormo. Ma se sto senza di te, vivo tranquillamente. Magari ci sto male per un po’. Ma non muoio.
Cioè, non è un bisogno quello di averti, perché, anche senza di te, respiro, mangio e dormo. Bensì, quello di vivere con te è un desiderio, poiché con te la mia vita sarebbe più piacevole.
Purtroppo, però, molti, troppi rapporti si fondano su presunti bisogni che diventano forme di dipendenza affettiva. Che, prima o poi, degenerano.
La soddisfazione dei bisogni, quindi, riguarda noi stessi e non può essere demandata agli altri. Ecco, allo stesso modo, per star bene con gli altri, occorre per prima cosa, riuscire a star bene con sé. Anche quando si resta chiusi da soli all’interno di una stanza. Se questa condizione non si verifica, c’è solo l’illusione della felicità e del benessere che risiede nell’appoggiarsi emotivamente agli altri.
Quando questo accade, subentra la patologia, proprio come la dipendenza affettiva che troppo spesso sfocia in comportamenti criminali quando le relazioni si trasformano.
Armonia e relazioni
Se, quindi, essere felici significa essere in armonia con sé e assaporare un personale senso di benessere, la dimensione interiore è imprescindibile. Cioè, non la si può cercare né tantomeno trovare fuori da sé.
Adesso lasciamo il piano personale e trasferiamoci su quello professionale per testare la veridicità del teorema. Pensiamo, per esempio, a insegnanti e operatori della relazione d’aiuto. Professionisti che vivono di relazioni e degli scambi emozionali su cui esse si fondano. Ognuno di essi ha lo scopo di essere efficace in quello che fa. E, per farlo, deve possedere la capacità di sintonizzarsi sul piano empatico con l’altro. Deve, cioè, riuscire a comprendere e condividere gli stati emotivi e affettivi degli altri per poter essere loro realmente d’aiuto.
In che modo un insegnante o un operatore può rispecchiare uno stato emotivo, che permetterà all’altro di sentirsi compreso, senza conoscere egli stesso per primo quella determinata emozione? Se egli non conosce quell’emozione,
- porterà nella relazione i propri sentimenti confusi,
- andrà a caso e
- ne subirà frustrazione.
Il paradosso del terapeuta
In alternativa, finirà per proiettare e per tentare di aiutare se stesso, illudendosi di farlo con l’altro. È quello che si chiama, in senso lato, il “paradosso del terapeuta“.
I ricercatori De Vignemont e Tania Singer lo spiegano bene: l’osservatore deve conoscere le proprie ansie e angosce per non sentirle come provenienti dall’altro. Altrimenti, finirà per intervenire su quelle, attribuendole alla persona osservata. In tal modo, di fatto, aiutando se stesso al posto dell’altro. Se, però, egli si conosce, gli sarà più facile mettersi in un preciso stato emotivo d’accoglienza, replicando intimamente, per imitazione (appunto, per empatia), angoscia, dolore o gioia. Cioè, come se li provasse realmente e in prima persona.
Così il suo stato affettivo finirà per assomigliare a quello della persona che ha di fronte, avendo consapevolezza del fatto che è lo stato affettivo della persona osservata che attiva quella data risposta emotiva. Il che farà sentire accolta la persona facilitata, senza che l’osservatore faccia confusione sull’origine e sulla provenienza delle emozioni.
La relazione efficace
Se questa sintonia si realizza nell’accogliere lo stato mentale dell’altro, la relazione diventa efficace. E proprio questa buona qualità dell’aiuto, basata su tanta vicinanza nel corso dell’intervento, gli permetterà di potersi distanziare emotivamente dal suo ruolo una volta che avrà dismesso i panni professionali. Perché saprà di poter fare il massimo per l’altro, senza portarsi a casa la sensazione di fallimento che deriva dall’insuccesso.
Ed ecco perché il pensiero autobiografico rappresenta lo strumento privilegiato per formarsi alla consapevolezza che richiede il ruolo dell’operatore della relazione d’aiuto. Riscoprendo la creatività, egli potrà
- mettere insieme tutte le informazioni pregresse (i ricordi, i vissuti della sua vita),
- portarle ad un livello di coscienza ed
- essere davvero d’aiuto agli altri.
- Vivendo finalmente il proprio ruolo con un benessere consapevole.
La fiaba, con le sue metafore e i tanti personaggi, diventa l’oggetto intermediario per la crescita personale dell’operatore che, successivamente, diventerà tecnica spendibile nei diversi contesti professionali.
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