Perché serve consapevolezza? Perché siamo tutti esposti, nel vortice della nostra quotidianità, a pensieri esterni che si insinuano. Siamo pervasi da preoccupazioni che investono la sfera emotiva e che si riflettono nelle relazioni interpersonali. A volte, esse riguardano il nostro stato di salute. Ecco, in tutti i casi, quando siamo irretiti dai nostri pensieri fissi, la nostra mente tende ad innestare ”il pilota automatico”. Lo afferma Jon Kabat-Zinn, nella foto, biologo e scrittore statunitense, autore, tra gli altri, del libro “Mindfullness per principianti“. Se la nostra mente è intrappolata in pensieri ed emozioni dominanti (che vanno dal passato alle prospettive future in maniera “ruminante” e quasi coercitiva), essa non riesce più a “stare nel momento”, a soffermarsi sul presente. A causa di ciò, essa smette di operare analisi oggettive di pensieri ed emozioni che, in tal modo, non vengono più osservati per ciò che realmente sono e rappresentano.
Meditazione e schemi cognitivi
La meditazione Mindfullness, induzione di un alterato stato di coscienza facilitato da una guida, tende ad interrompere questo circuito del pensiero automatico, stimolando la persona a concentrarsi su quel pensiero o su quella emozione per osservarli in sé, come sono fatti. E, cosa fondamentale, accettarli per quel che sono. L’accettazione, infatti, è un punto di partenza fondamentale per acquisire un nuovo modo di pensare, per “creare” nuovi punti di vista sul problema di cui ci si sente prigionieri.
Noi sappiamo oggi, grazie al contributo di Siegel e delle neuroscienze, che gli schemi cognitivi ed emotivi del nostro rapporto con la realtà vengono elaborati secondo il percorso
- unimodale,
- sopramodale e
- trans-modale nella zona intermedia del lobo prefrontale.
Sono, dunque, schemi comportamentali che vengono automaticamente trasmessi in periferia come reazione a stimoli, informazioni e flussi energetici che provengono dalla realtà circostante e dagli altri individui. Tutti insieme costituiscono il nostro cosiddetto “cervello sociale”.
Il modello Mindfullness
Il modello Mindfullness, per contro, propone una visione inversa, insistendo sul “qui e ora” di chi vive l’esperienza. Propone, dunque, una conduzione neurofisiologica di
- stimoli,
- informazioni sensitivo-sensoriali,
- flussi energetici,
per così dire, dal basso verso l’alto, piuttosto che dall’alto verso il basso. Kabat-Zinn, durante il percorso Mindfullness, invita alla concentrazione su parti del corpo (sui visceri interni, sul respiro diaframmatico) che favorisce il rilassamento.
Sia da seduti che in movimento. In questo modo, la stimolazione periferica enterocettiva viene prevalentemente riversata sull’insula, nella sua parte mediana, e da qui trasmessa al lobo prefrontale dove gradualmente viene elaborata. Esistono, in proposito, numerosi riscontri in neuroimaging da cui è possibile osservare che l’insula di una persona che si è sottoposta ad un percorso mindfullness risulta ispessita nella sua parte mediana (Lazar, Kerr, Wasserman e altri, 2005). Bene: a questo ispessimento corrisponde un incremento della risposta immunitaria (prevalentemente cellulare, piuttosto che umorale).
Definire la Mindfullness
Può essere tradotta come “pienezza della mente”. Da circa una decina d’anni la Mindfullness è diventata una pratica di meditazione, concentrazione sul sé, autosservazione che migliora la capacità dell’essere umano di affrontare le sue difficoltà quotidiane. Dalle più semplici alle più complesse, con una modalità diversa da quella più comune, fortemente ansiogena e, quindi, nociva sia all’assetto fisico che psichico.
E’ un metodo di lavoro ideato da Jon Kabat-Zinn che prevede percorsi per la consapevolezza di sé della durata media di otto settimane ciascuno. Il metodo, definito dal suo fondatore anche della “consapevolezza della consapevolezza”, ha incoraggiato le ricerche dei neuroscienziati sulle modificazioni cerebrali che un tale percorso può provocare. Su tutti, Daniel J. Siegel, neuroscienziato californiano, e gli italiani Franco Fabbro, Cristiano Crescentini, Gabriele De Anna, Rinaldo Fabris, tutti studiosi delle interconnessioni tra Filosofia, Teologia, Psicolologia e Neuroscienze.
Mindfullness e neuroplasticità
La pratica Mindfullness, come detto, discende direttamente da quella della “meditazione”, utilizzata in varie religioni e, soprattutto, nel Buddhismo. Ne parla anche la religione cristiana ma con accezione diversa. Nel Cristianesimo, la mente si riempie dopo aver fatto il vuoto rispetto ad altri pensieri, obiettivo complesso per l’uomo e raggiungibile in situazioni di particolare e forte alterazione dello stato di coscienza, molto vicina all’estasi. Le religioni orientali utilizzano spesso la meditazione trascendentale, nella quale il vuoto della mente viene raggiunto attraverso una “discesa graduale” verso il proprio sé con l’aiuto di un “mantra” che è collegato a quel percorso interiore alla ricerca di sé. Discesa spesso immaginata come una discesa verso la propria stanza interiore lungo gli ideali gradini di una scala.
Questi studi dimostrano che alcuni schemi di pensiero, comportamentali ed emotivi, già strutturati e diventati, di conseguenza, automatici, possono essere, dunque, modificati usando la via inversa, quella che dalla periferia porta verso il centro, dal basso verso l’alto, appunto, in virtù delle evidenze della neuroplasticità.
Proprio la Teoria della Plasticità Neuronale, infatti, fornisce un implicito sostegno alla Mindfullness, poiché ammette la rimessa in forma di alcuni circuiti neurali attingendo da altri che, dal primigenio strutturarsi del nostro cervello in relazione al mondo bio-psico-sociale, sono rimasti quiescenti.
Consapevolezza e narrazione di sé
Che si chiami Mindfullness o in qualunque altro modo, praticare la consapevolezza della consapevolezza aiuta il benessere e la salute. A scuola, poi, aiuta l’insegnamento e l’apprendimento (ma questa è un’altra storia). Io lavoro nella stessa direzione con il mio Metodo Autobiografico Creativo. Narrare di sé, della propria storia personale, in fondo, permette un “incontro“. L’incontro con lo sconosciuto che viaggia con noi. Nell’interpretazione psicoanalitica delle fiabe di Propp, riferimento bibliografico cardine della mia indagine, il protagonista e l’antagonista sono, infatti, rispettivamente, la parte in luce e quella in ombra della personalità di ognuno.
Sono, cioè, facce opposte della stessa medaglia che si incontrano sulla scena di un “c’era una volta…” con l’aiuto della metafora. Per questo parlo di Tecnica della Fiabazione nei percorsi di crescita personale che hanno nell’acquisizione della consapevolezza di sé il fine ultimo.
In tutti i casi, solo la consapevolezza di sé può tradursi in comprensione degli altri. E, accanto alla spiegazione neurofisiologica, motiva il successo di vite felici, sul piano psicologico, per le relazioni sincere ed efficaci, fondate sull’empatia, che essa permette.
Ritornerò spesso sul tema. Per ora mi limito a consigliare ai lettori di approfondire il legame tra creatività, fiabe e consapevolezza leggendo ciò che ha detto chi ha preso parte all’esperienza.
0 commenti
Trackback/Pingback