In qualunque corso di Marketing ti imbatterai, la prima cosa che ti spiegheranno (o che dovrebbero spiegarti) è che la professionalità è la risultato di un ideale, ben equilibrato mix tra le diverse forme del “Sapere”: Sapere, Saper fare e Saper essere.
Analizzando, cataloghiamo nella macroarea del Sapere tutto quell’insieme di conoscenze, frutto di studio, preparazione teorica (oggi si dice, d’area formale, non formale e informale) e aggiornamento che vanno dal generale al particolare. Ovvero, il Sapere, nell’accezione in cui viene qui usato il termine, racchiude ogni tipo di conoscenza meramente nozionistica, ancorché approfondita, da quella scolastica, accademica, alla conoscenza approfondita di tutte le caratteristiche tecniche di un qualsiasi prodotto o servizio di cui un professionista è chiamato a dare informazioni in un colloquio di vendita. Ma, per fare un esempio, non è sufficiente aver concluso brillantemente l’Università ed aver fatto un buon corso di formazione in marketing, supponiamo, finanziario, per definirsi professionisti del settore, nonostante si sappia tutto dei fondi d’investimento. Poiché occorre saper applicare, mettere in pratica quelle conoscenze, dunque Saper fare. In questo nuovo livello del sapere, ci troviamo di fronte ad una capacità che presuppone le conoscenze (il Sapere) e che viene affinata attraverso stage, tirocini, affiancamento sul campo. Tutte attività che presuppongono lo svolgimento di veri e propri incarichi.
Ma, se io sono preparato, conosco e so applicare alla perfezione le tecniche di vendita, di comunicazione efficace e di persuasione, ma le utilizzo per affibbiare patacche al posto di oggetti preziosi, posso considerarmi un professionista? O, ancora, posso dirmi professionista se non associo al mio sapere e al mio saper fare il più elementare rispetto per gli altri e per il ruolo che rivesto, responsabilmente, in nome della fiducia che ripongono in me i miei clienti? Se non ho tenacia, perseveranza, empatia, creatività, autonomia, dinamismo, flessibilità, spirito d’iniziativa, estroversione, coraggio, apertura, personalità, stile e immagine?
Il Saper essere, dunque, può essere definito come l’insieme degli atteggiamenti etici e dei comportamenti morali che connotano il modo di essere e sentirsi professionisti, al di là di ogni conoscenza teorica e abilità pratica.
Ricordo che in una circostanza, all’inizio della mia carriera di consulente finanziario, fissai un appuntamento con un cliente in portafoglio all’agenzia che avevo iniziato a gestire e per il quale avevo pensato ad un piano di sviluppo, visto che sapevo essere diventato padre da poco ed essere sprovvisto di coperture assicurative adeguate alle nuove esigenze. Come sempre accade in questi casi, essendo io poco più che maggiorenne, venni affiancato da un supervisore esperto: è difficile andare in casa di qualcuno a parlare di investimenti e di piani previdenziali a vent’anni. Occorre la credibilità dell’esperienza e degli anni che, nell’immaginario comune, è sinonimo di affidabilità. Bene: giunti alla conclusione dell’intervista, il nostro cliente si allontanò per rispondere al telefono nella stanza accanto (il cellulare era ancora un miraggio per i più!) e, approfittando del momento, mi misi a scherzare con il figlioletto che gattonava accanto a noi. Restai raggelato dalle parole del mio tutor che, rivolgendosi sottovoce al bambino, disse qualcosa del tipo: “Vedrai se tuo padre non firma e non ci stacca un bell’assegno!” Capii in un attimo che cosa non volevo diventare e che, dietro quella sincera trattativa di consulenza, magistralmente condotta per la tutela della famiglia del nostro interlocutore e tecnicamente ineccepibile, c’era finzione al solo scopo di concludere una vendita.
Per inciso, nell’occasione non portammo a casa nessun contratto e oggi mi spiego anche il perché.
Appare evidente, dunque, l’obbligo che corre al professionista di “essere” un uomo di marketing più che saperlo “fare”, senza trascurare nessun aspetto della propria preparazione, sia sul piano tecnico che sul piano umano.
Viene da chiedersi a questo punto quale sia il mix ideale delle competenze, tra Sapere, Saper Fare e Saper Essere.
Chi, infatti, privilegia troppo il Sapere appare, paradossalmente, troppo teorico e poco concreto. Sapere molto ma Saper fare poco rende inapplicabile e improduttivo il Sapere che, così, finisce per essere relegato tra le conoscenze accademiche. Per contro, chi privilegia troppo il Saper fare, finisce per apparire come una persona fin troppo pratica e poco adeguata agli scenari professionali e imprenditoriali di oggi che richiedono, contemporaneamente, anche una preparazione di tipo teorico e culturale in genere, requisito fondamentale per imparare a leggere criticamente (e perfino politicamente) gli stessi scenari. Infine, chi privilegia troppo il Saper essere rischia di apparire un diplomatico manipolatore, astuto e inconcludente sulle questioni davvero importanti.
È opportuno, dunque, che Sapere, Saper fare e Saper essere, che compongono la cosiddetta “competenza agita”, interagiscano continuamente tra di loro, creando e modellando una professionalità in linea con le differenti situazioni di lavoro per un’attenzione progettuale funzionale ad un campo definito (in contesto sociale e in un tempo determinati).
Uno Psichiatra conosce la Psicopatologia e la Psicologia dal suo corso universitario in Medicina e, poniamo, dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia. Ma deve anche saper fare lo Psichiatra, deve saper riconoscere dai sintomi una Psicosi o una Nevrosi per una corretta prescrizione delle cure più adatte al caso. Deve, cioè, saper applicare le sue conoscenze per risolvere gli specifici problemi che i pazienti e i committenti gli pongono. Deve saper fare una perizia, una ricerca, saper inquadrare e gestire un caso, sapersi organizzare. Non solo: deve anche saper essere uno Psichiatra e conciliare deontologia professionale ed esigenze dei pazienti e delle istituzioni committenti, salvaguardare la privacy delle persone in cura, archiviare i dati sensibili, rendersi disponibile per le emergenze anche fuori dai suoi orari di studio, saper aderire all’idea di chi ha, come missione, il compito di aiutare gli altri, sapersi assumere la responsabilità nell’accettare le prese in carico e così via. Non troppo diversamente da quello che vale per qualunque altro professionista (architetto, avvocato, ingegnere, eccetera).
Gli esempi potrebbero sprecarsi. Ma in tutti i casi vale lo stesso principio: il professionista, per potersi definire tale, deve saper coltivare se stesso e le proprie competenze (tutte, nessuna esclusa) con il medesimo, quotidiano, costante impegno, sia in relazione al suo Sapere che al Saper fare e al Saper essere. Questo vale a maggior ragione se si considera quanto sia deleterio puntare tutto solo su alcuni degli aspetti della competenza agita, perdendo di vista le interazioni tra tutti gli elementi. È pura illusione credere di poter acquisire il Saper Fare o il Saper Essere nei corsi di formazione o di aggiornamento continui per essere un professionista. Così come è sbagliato puntare tutto sulla pratica e l’esperienza: le conoscenze (che, comunque, di base devono esserci) cambiano rapidamente e altrettanto rapidamente vanno aggiornate. E a che serve l’immagine, il Saper Essere, davanti ad un paziente in crisi psicotica, se di fondo non ci sono grandi conoscenze e competenze pratiche per sapere come intervenire?
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