La cosa più bella dell’Intelligenza Emotiva è che essa trova un’applicazione pressoché universale. Sapere di provare emozioni (per così dire) distruttive può servirci per nutrire la nostra mente con immagini positive, che possano permetterci di sfumare, mitigare e, in certo senso, di trasformare quelle emozioni in qualcosa di funzionale a ciò che serve in quel momento. E distrarci, dunque, da stati d’animo che ci impediscono di performare nelle nostre relazioni abituali, nel nostro consueto modo di stare al mondo e comunicare. Se funziona con noi stessi, possiamo mutuare tale comportamento, tale atteggiamento mentale appreso con gli altri, se il nostro scopo è di aiutarli a superare talune condizioni dello spirito che appaiono inefficaci, infruttuose, sterili, quando non minacciose o pericolose.
Le relazioni sono complesse
Accorgersi, allora, di una condizione emotiva negativa, che può diventare tossica, nociva, distruttiva, aiutare qualcuno a mettere da parte il solo filtro con cui una persona a noi cara interpreta e decodifica ciò che gli accade dentro e intorno richiede spiccate doti empatiche. Perché le relazioni sono per definizione complesse.
Non c’è niente di facile e scontato nella gestione dei rapporti interpersonali. Per questo anche i legami sentimentali e amicali hanno bisogno di intelligenza emotiva. L’intrinseca fragilità delle unioni, d’altro canto, richiede cura e attenzione, qualità raramente disponibili nelle società occidentali, ammalate di fretta e di rumore di sottofondo. Prendersela con gli altri è la cosa più facile per chi è sguarnito di competenze emotive.
Ovunque, poiché anche nei luoghi di lavoro ognuno porta, con alterne fortune, gli stilemi comportamentali della vita privata.
L’intelligenza emotiva
Ma, allora, se l’intelligenza emotiva è una panacea, perché non la adottiamo dappertutto? Perché ancora non sono obbligatori corsi di coaching in intelligenza emotiva per tutti i collaboratori delle imprese di tutto l’occidente?
Il motivo è semplice: pur essendo dimostrato che solo le organizzazioni emotivamente intelligenti attraversano indenni i periodi di crisi più neri (anzi, più spesso, crescono, approfittando delle mancanze dei competitor), esse adottano, tuttavia, processi lenti, poiché è davvero difficile capire come si sentano le persone.
Goleman dice, in proposito, che è colpa del cervello sociale che si modifica più a fatica di quanto non accada con il già resistente cervello individuale.
La metacomunicazione
Nella quotidianità, dunque, capirsi può essere complicato, dato che uomini e donne, mediamente distratti dalle interferenze 5.0, hanno perduto buona parte della capacità di sintonizzarsi sul piano delle emozioni.
Metacomunicare, allora, come suggerisce Thomas Gordon ne “Le relazioni efficaci”, cioè entrare nel merito degli stati d’animo che si avvicendano nelle liti, affrontare gli aspetti relazionali della discussione stessa rimane impossibile per mancanza di tempo, di dedizione, di attenzione e di vocabolario emotivo.
Perciò ai contendenti non rimane che focalizzarsi sugli aspetti di contenuto: “Perché ho ragione io, perché hai ragione tu”. Il che alimenta all’infinito interminabili dispute verbali.
Il fattore culturale
Per potersi interfacciare correttamente tra loro, dunque, uomini e donne hanno bisogno di molta intelligenza emotiva, solitamente più accessibile per l’universo femminile. Non è un fatto biologico: uomini e donne hanno lo stesso cervello con lo stesso numero di neuroni. Ma ricevono un’educazione differente:
- 1. le bambine si trovano a sperimentare fin da piccole un ventaglio di emozioni con cui si confronteranno da grandi;
- 2. mentre ai piccoli è spiegato solo (e senza troppo successo, nella maggior parte dei casi) come gestire la rabbia.
Questa diversità tutta culturale durerà tutta la vita. Le donne sviluppano, in tal modo, una maggiore capacità di sintonizzarsi con le proprie emozioni (cosa che invece accade di rado agli uomini).
Gli uomini, invece, più pragmatici, vanno in cerca di sommarie soluzioni per non doversi confrontare sul piano di un sentire che appare atrofizzato per “mancato utilizzo”. O per il semplice fatto che si sintonizzano più lentamente (e anche più superficialmente) con il proprio universo emotivo.
Personalità in azienda
È naturale che questi stessi uomini, maggiormente coinvolti rispetto alle donne nell’agone delle sfide ai mercati, portino nei contesti di lavoro le proprie inibizioni emozionali e che non ci capiscano nulla degli altri, delle loro necessità, paure, preoccupazioni, che non prestino ascolto e che non comprendano le altrui posizioni e motivazioni. Ed è anche logico che cerchino soluzioni tecniche laddove servono competenze umane. Se è tutto quello che possiedono…
Il che, in ogni caso, dimostra e ci riporta alla tesi d’apertura: le organizzazioni possiedono o sanno come procurarsi le competenze tecniche. Ma queste da sole non bastano ad attraversare incolumi le bufere. Nei periodi difficili servono soprattutto fiducia, motivazione e perseveranza. Solo un leader risonante (Goleman lo definisce “Leader Coach”) sa creare queste condizioni, scegliendo i propri collaboratori in base all’intelligenza emotiva o formandoli a questa nuova idea di cultura della collaborazione.
Il Piccolo Principe
Scrive Antoine de Saint-Exupéry: «Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato». Era il 1943.
0 commenti
Trackback/Pingback