L’infelicità è un limite autoimposto? Mentre scrivo il titolo, sono certo di aver definitivamente risolto ogni dubbio circa la correttezza dell’affermazione. Mio obiettivo, con l’aiuto della psicosinetisi di Roberto Assagioli che ispira i libri di Giulio Cesare Giacobbe, è dimostrare questo teorema nel prosieguo dell’articolo. Voglio dire che non tutti ne saranno persuasi. Ed è a loro che mi rivolgo prioritariamente. Certo è che la strada per la felicità, argomento che mi affascina e di cui inizio ad occuparmi per le sue correlazioni con l’intelligenza emotiva, è disseminata di insidie. Alcune di esse siamo noi a generarle. Altre ce le impongono la biologia e la cultura dominante. La prima ci spinge a godere del momento gioioso, data la ancestrale predisposizione del cervello umano a rifuggire l’infelicità invece di ricercare la felicità; la seconda ci impone di nascondere la felicità e di proteggerla dagli sguardi mediocri e impietosi di chi ci vorrebbe gli altri allineati ai modelli di pensiero creati dalla mediasfera. Proverò, dunque, a spiegare come e perché essere felici, sapendo come riconoscere e arginare l’infelictà che, inconsapevolmente e involontariamente, ci autoinfliggiamo.
L’infelicità è sofferenza
Per comprendere a pieno il concetto di felicità basta comprendere bene il suo esatto opposto, l’infelicità. L’infelicità è facilmente riscontrabile in natura, dal momento che è così diffusa da apparire ormai perfettamente normale. Si presenta principalmente con una caratteristica che potrebbe essere considerata l’unica caratteristica, ma indubbiamente anche devastante: la sofferenza.
Cos’è la sofferenza? È una condizione dell’anima che corrisponde a due stati mentali: da una parte l’ansia, dall’altra la depressione, le reazioni tipiche dell’uomo primitivo (ma anche quella degli animali) a tutte le possibili forme di aggressione.
- La prima è una reazione che induce a fuggire o a lottare,
- la seconda induce all’immobilità.
Entrambe hanno una matrice comune: noi soffriamo, e di conseguenza proviamo gli stati d’ansia e depressivi, a causa della paura. Paura, che per altro, nel corso dei millenni, è andata evolvendo (e perfezionandosi), man mano che cambiavano gli oggetti dei nostri stessi timori. Un tempo, infatti, quando nel cervello umano si sviluppava la neocorteccia, la paura era prevalentemente quella che l’uomo primitivo provava davanti al pericolo per la sua stessa sopravvivenza.
Con la neocorteccia, infatti, l’uomo impara a pensare con il fine di ideare strategie per rifuggire i pericoli.
Infelicità e paure
Quello che però è successo nel corso dei millenni dell’evoluzione della specie, è che da quando l’uomo non abita più nella giungla ma si è organizzato in quei complessi villaggi che oggi noi chiamiamo civiltà, le paure sono molto cambiate. Da paure reali, per l’incolumità, per il fatto di essere stati per lungo tempo il pasto delle belve feroci, esse si sono trasferite sul piano dell’immaginario. Le paure di adesso sono le preoccupazioni (per i figli, per il lavoro, per la salute), le incertezze, le crisi economiche, esistenziali, dei rapporti…
Cioè, le paure dei nostri giorni sono puramente immaginarie, senza un vero riscontro nella realtà, imputabili alle presunte aggressioni che riteniamo di subire ma non subiamo veramente. Sono paure, in altre parole, che abitano nella nostra mente, radicate nei nostri pensieri.
L’infelicità è uno di questi pensieri o stati mentali che si presentano con un succedersi sistematico di ansia e di depressione, dovute a paure immaginarie. Sono, infatti, queste paure che ci fanno percepire la condizione di aggressione che genera in noi ansia o depressione.
Ansia e depressione
Cosi, nei diversi momenti della nostra esistenza noi soffriamo ciclicamente, periodicamente o di ansia o di depressione. E quando questi momenti diventano cosi frequenti da formare una sorta di vortice che si impadronisce della nostra vita, fino a diventare pensiero fisso o prevalente, allora sì che ufficialmente possiamo spalancare le braccia alla nostra infelicità. L’infelicità è, dunque, un succedersi sistematico e ciclico di ansia e depressione che noi definiamo con una parola sola: stress. Ecco: quando siamo stressati viviamo la condizione di infelicità che è, per definizione, naturalmente patologica.
Spesso non sussistono affatto le condizioni per cadere nella rete dello stress, perché siamo noi stessi che ci induciamo condizioni di ansia e depressione. Siamo, quindi, noi stessi che ci auto-induciamo sofferenza e infelicità. Capita così di dimenticarsi che la felicità è a portata di mano e che, qualunque cosa accada, è alla portata di ogni essere umano, dal momento che la serenità non dipende affatto dalle situazioni esterne ma unicamente dalla nostra reazione ad esse.
La reazione ad ogni situazione è, infatti, sempre condizionata da qualcosa. E, solitamente, quel “qualcosa” è già dentro di noi. Ma che cosa provocare lo stress? La memoria, cioè il ricordo di una esperienza che è ancorata nel nostro passato. Un passato che, però, essendo ancora presente, può perfino condizionare il nostro futuro. Se, allora, abbiamo memoria di un passato infelice, come possiamo pensare ad un futuro di felicità senza interrompere questa catena?
La felicità dipende da noi
Se sappiamo come farlo, possiamo in qualunque momento costruire la nostra serenità, sganciando la memoria nei nostri pensieri con un atto volontario e consapevole. con la consapevolezza e la volontà di distrarsi dai pensieri nocivi, le nostre reazioni alle situazioni stressanti si svincolano dal condizionamento e possono orientarsi alla positività, perseguendo per noi lo stato di serenità.
Serenità, pace, armonia, buonumore, gioia, felicità, amore non sono altro che stati mentali che tutti abbiamo il potere di realizzare e di rendere permanenti. Perché, proprio in quanto stati mentali, dipendono da noi e soltanto da noi.
Se però tutti gli esseri umani possono aspirare alla felicità, per quale motivo ci sono nel mondo tanta sofferenza e infelicità?
Presenza e consapevolezza
Una delle risposte possibili, fornita ad esempio dalla filosofia buddhista, è nell’ignoranza, ovvero nell’incapacità delle persone di liberarsi dalla sofferenza grazie alla pratica costante dell’osservazione
- di sé,
- delle proprie sensazioni ed emozioni
- e degli stessi pensieri,
attraverso la presa di coscienza. Possedere, infatti, consapevolezza di ciò che accade dentro di noi e intorno a noi aiuta a dissolvere ogni ansia, ogni dolore e aiuta a sostituire questi stati d’animo con l’accettazione e con l’amore.
Solo la presenza mentale e la consapevolezza conducono alla liberazione definitiva dalla sofferenza, perché ci permettono di vedere con chiarezza quello che accade dentro e fuori di noi, riportandoci in connessione con la realtà.
L’infelicità è visione errata della realtà
L’infelicità allora è da attribuire ad una visione errata della realtà, che può essere eliminata solo sostituendo tale visione con una corretta. Con la capacità, quindi, di osservare con presenza quello che accade intorno a noi e di viverci dentro in modo tale da acquisire una maggiore consapevolezza. Da quando, infatti, l’essere umano ha iniziato la sua evoluzione psichica, che ha fatto del suo pensiero la sua principale attività percettiva, il suo Io si è dilatato e ha travalicato i limiti naturali del suo corpo.
Oggi ci identifichiamo con tutto ciò che “ci appartiene”, oltre al nostro corpo, naturale conseguenza dell’enorme sviluppo dell’Io che è diventato ipertrofico. Ci identifichiamo con ciò che possediamo, con le le nostre ricchezze, con i i nostri averi.
È normale, allora, che, identificandosi con gli oggetti e aumentando il numero di minacce esterne, l’io cosi espanso avverta costantemente minacce che arrecano sofferenza.
La paura di perdere tutto
Perché la nostra sofferenza è strettamente legata alla paura di perdere tutto ciò a cui siamo legati. Maggiore, infatti, è la dilatazione dell’io, maggiore è la sua vulnerabilità, dal momento che, aumentando gli oggetti con cui egli si identifica, aumentano i rischi che sono collegati ai tanti simboli mentali che vengono costruiti sulla base di valori sociali e culturali che nulla hanno a che vedere con i valori naturali.
Ecco, dunque, la conclusione: lo stato di infelicità dipende da una eccessiva dilatazione dell’io e dall’aumento della sua vulnerabilità a causa degli oggetti con cui si identifica. Oggetti a cui l’io rimane attaccato e che ha paura di perdere. E nulla può dare la felicità: non il denaro, non il potere, non la salute… Solo la felicità dà la felicità. È sufficiente cambiare la qualità dei pensieri, isolare la memoria di convinzioni preconcette, azzerarne gli effetti e svincolarsi dalle paure immaginarie.
In tal modo, lo stato di felicità è a portata di mano. Dovrebbe perfino essere lo stato naturale. Solo che è cosi poco diffuso da apparire eccezionale. Vivere con pienezza e godere del presente, mentre tutti corrono chissà dove con il pilota automatico, sono le chiavi del benessere.
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