Ciò che distingue il bravo comunicatore è la capacità di previsione degli effetti sugli altri del suo modo di parlare e, complessivamente, di esprimersi. In altre parole, poiché la comunicazione veicola emozioni, l’atto di incontrare l’altro sul terreno comune (dal latino cum e humus) è sempre un fatto di Intelligenza Emotiva. Se osserviamo i modi e le parole con cui si esprimono personaggi noti e meno noti, non possiamo fare a meno di rilevare come molte volte le incomprensioni siano in agguato e come sempre più spesso si alimenti il clima di diffidenza e di conflitto tra le persone proprio a causa dell’incomunicabilità. La quotidianità, fatta di social e tv, dimostra come nessuno sia immune da scivoloni linguistici che attivano fantasie ed evocano emozioni negative oltre ogni intenzione. Il che, probabilmente, è pure peggio della più bieca intenzione di nuocere con lingua biforcuta.
Politici e giornalisti
Ad esempio, i politici e i giornalisti hanno disimparato così bene a parlare in italiano, adeguandosi, di fatto, allo stile sciatto e approssimativo della società occidentale deintellualizzata, che un ritorno sui libri delle medie potrebbe far loro solo bene.
Ecco due episodi che mi sono rimasti impressi (e che forse anche voi ricorderete).
- Sul finire del 2017, poco prima del tramonto del suo governo, l’allora Premier Paolo Gentiloni ebbe modo di esprimersi con una frase che ora ci serve non tanto per spiegare la situazione economica del nostro Paese ma solo per provare a immaginare che cosa accada nella mente e nella pancia di tante persone che sono costrette dai potenti mezzi della mediasfera a sorbirsi tanta incuria linguistica. Nella circostanza della sua conferenza stampa, trasmessa al tg della sera, Gentiloni affermò, tronfio: “L’Italia non è più il fanalino di coda”. Non contento, a fine intervento: “Se state cercando il fanalino di coda, cercatelo altrove”.
- Tempo dopo, siamo alla vigilia delle elezioni del 2018, gli fa eco Di Maio con il suo perentorio: “Non lasceremo il paese nel caos”.
Tutte buone notizie che dovrebbero rasserenare e che invece sortiscono l’effetto contrario, perché evocano inconsapevole preoccupazione ed emozioni negative. Il motivo l’ho spiegato in diversi articoli che trattano l’argomento della comunicazione efficace ma, adesso, lo richiamo alla memoria con un esempio.
Comunicazione e immagini
Nel 1994 il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio condusse un esperimento proprio riguardo all’esito di differenti modi di porre le questioni, dimostrando l’inefficacia e la pericolosità sociale di taluni usi inappropriati della comunicazione (che oggi denotano, aggiungo io, insufficienti livelli di Intelligenza Emotiva).
Suddiviso il gruppo dei pazienti in due sottogruppi,
- ai membri del primo pose la questione in questi termini: “Se deciderà di operarsi, avrà il 90% di possibilità di sopravvivere”;
- ai membri dell’altro gruppo, invece: “Se deciderà di sottoporsi all’intervento avrà il 10% di possibilità di morire”.
La maggior parte delle persone che decisero di sottoporsi all’intervento appartenevano al primo campione, mentre quasi nessuno del secondo accettò di operarsi, benché le sue due frasi fossero sostanzialmente identiche (cioè, benché avessero il medesimo significato). A fare la differenza sarebbe stata l’immagine evocata dalle due frasi:
- la prima, positiva, che lasciava presagire esito favorevole e sopravvivenza;
- la seconda, negativa, che lanciava infausti presagi di morte.
La ricerca di Antonio Damasio dimostra che quello che diciamo e il modo in cui lo diciamo contribuiscono ad attivare o disinnescare l’amigdala, la centrale di comando, posizionata all’interno dei circuiti limbici, che è responsabile dell’emozione della paura: un’immagine positiva la disinnesca, mentre un’immagina negativa la innesca.
Parole ed emozioni
Se seguite abitualmente i miei lavori o lavori affini, conoscete perfettamente la ragione per cui tutto questa accade: il nostro cervello si nutre di immagini, non conosce le parole e tende a trasformare in immagini qualunque cosa ascolti, senta o veda. Solo le negazioni non vengono recepite dal nostro cervello (la negazione di un’immagine non è pensabile perché, per il medesimo principio, è anch’essa un’immagine).
- Quindi, nella frase “Non siamo più il fanalino di coda” quale immagine si attiva e si imprime, con il suo gravame emozionale, nella mente del pubblico? Quella del fanalino di coda, per l’appunto, svuotando il contenuto trasmesso di ogni portato positivo.
- Stesso discorso per il “Non lasceremo il paese nel caos”. Devo però aggiungere, ad onor del vero, che la giornata del 4 Marzo 2018, vigilia delle elezioni, fu un trionfo di stoccate emotive al povero pubblico, con Gentiloni, mio inconsapevole ispiratore di tanti esempi su come non si dovrebbe comunicare e di altrettanti corsi sulla comunicazione con intelligenza emotiva per correggere gli errori, che si esibì pubblicamente in uno show antilinguistico che chiosava con uno storico “purché non sia la fiera dell’odio”.
Quando comunichiamo (e Dio solo sa che responsabilità ci assumiamo quando lo facciamo davanti a tante persone, la maggior parte sguarnite sul piano emotivo), ogni parola e ogni gesto che usiamo evoca un’immagine (e un’emozione associata) che può essere
- bella o brutta,
- gradevole o sgradevole,
- funzionale allo scopo o completamente disfunzionale.
Basta sapere come si comunica e scegliere accuratamente quello che si intende comunicare. Perché quell’immagine, a sua volta, susciterà un’emozione. Ecco perché bisogna essere emotivamente intelligenti per comunicare.

L’inganno della mente
Per strano che possa sembrarvi, l’uso di una parola al posto di un’altra può condizionare la nostra mente che, in particolari momenti della vita, ha anche bisogno di essere bonariamente ingannata. Ma solo così presta attenzione a quello che accade intorno. Se la nostra mente si nutre di immagini e dà forma alla realtà, pensate a quante frasi inefficaci sentiamo tutti i giorni : “Oggi mi sento stanco morto”, “Capitano tutte a me”, “È un periodo di m….”, “Vorrei solo mollare tutto e fuggire via”, “Non ce la faccio più”…
A proposito: quando ero molto giovane, anch’io usavo termini simili finché un giorno Saverio, il mio allenatore di volley e grande maestro di vita, mi insegnò che la frase “Non ce la faccio” è molto pericolosa. Che è una resa e che è l’anticamera del fallimento. Lui mi diceva: “Fai così” e io replicavo pigramente “Non ce la faccio”. Allora lui veniva da me e mi diceva: “No! Non va bene che tu dica così! Io posso solo ammettere che tu dica “Non ce la faccio ancora ma ce la farò”. E un giorno mi ringrazierai.”
Ecco: chi si autoimpone dei limiti mentali nutre la propria mente con immagini che evocano emozioni fallimentari, stati d’animo e vissuti di sconfitta: il modo più sicuro per non diventare mai adulti.
Se lo farete anche voi, un giorno, mi ringrazierete come io ringrazio ogni giorno il mio coach Saverio.
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