Viviamo un’epoca cruciale per le sorti dell’umanità. Non solo per il clima di paura di una nuova pandemia o della recrudescenza di quella a noi più vicina che ci ha fatto sbattere il muso contro la nostra intrinseca fragilità. Ma anche per il diffuso allarme sociale ed economico che getta ombre sinistre anche sull’avvenire dei nostri figli. Tutti sembrano avere soluzioni ma non è così. Politici e tecnici si industriano per arginare gli effetti devastanti delle crisi ma appaiono come i divertenti personaggi delle gag che cercano di tamponare con un dito la perdita d’acqua dal colapasta. Poi ci sono gli illuminati che propongono di riparare il rubinetto. Ma nessuno li ascolta, perché tanto l’acqua è già caduta.
La globalizzazione dell’indifferenza
A noi non resta che interrogarci se confidare nel prossimo economista che trovi la formula magica per mettere tutti d’accordo e salvare l’ambiente, per la sopravvivenza della specie umana, contemporaneamente distribuendo a cascata beni e ricchezze per convincere il mondo intero a desistere dai suoi irresponsabili intenti suicidari, o affidarsi agli umanisti.
Probabilmente, si comprende in maniera netta che la mia posizione porta alla seconda delle soluzioni. Perché, se da una parte oggi disponiamo con troppa facilità di tutto e possiamo definirci costantemente connessi e in contatto con gli altri, d’altra parte questa condivisione è puramente fittizia e produce isolamento, sfruttamento e sfiducia.
Che il processo di globalizzazione si sia, dunque, trasferito anche sul piano
- della mercificazione degli individui e
- del consumismo delle relazioni
lo conferma l’individualismo imperante che impedisce la realizzazione di progetti comuni volti al ripristino del clima di fiducia tra la gente. Che forse, realmente, non c’è mai stato ma che, in tal modo, di sicuro mai ci sarà, con la differenza che adesso se ne sente il bisogno. Tale individualismo, come afferma Papa Francesco nel Discorso al Consiglio d’Europa del 25 novembre 2014, si traduce nella globalizzazione dell’indifferenza: “Dall’individualismo indifferente nasce il culto dell’opulenza, cui corrisponde la cultura dello scarto nella quale siamo tutti immersi.”
Non per profitto
D’altro canto, come scrive Martha Nussbaum nel suo libro del 2010 Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, “la spinta al profitto induce molti leader a pensare che la scienza e la tecnologia siano di cruciale importanza per il futuro dei loro Paesi.”
Non c’è nulla da obiettare su una buona istruzione tecnico scientifica […]”, tuttavia, come scrive Dario Antiseri nel suo contributo alla Rivista Lasalliana dal titolo Società aperta e sviluppo economico, la Nussbaum esprime la sua preoccupazione che “altre capacità altrettanto importanti stiamo correndo il rischio di scomparire nel vortice della concorrenza: capacità essenziali per la salute di qualsiasi democrazia al suo interno e per la creazione di una cultura mondiale in grado di affrontare con competenza i più urgenti problemi del pianeta.
Tali capacità sono associate agli studi umanistici e artistici: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come cittadini del mondo; e, infine, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro.”
Il principio sociale dell’efficienza
Del resto, “non si può lasciare il governo dell’economia e della società alle sole forze di mercato, soprattutto quando il principio orientatore è quello dell’efficienza e del profitto.” Le parole sono di Alessandra Smerilli, Docente di Economia Politica presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione e Consigliere di Stato della Città del Vaticano che cura la prefazione all’Enciclica di Papa Francesco del 2020 dal titolo “Fratelli tutti – sulla fraternità e l’amicizia sociale”.
Delineato lo scenario attuale e il verosimile futuro, ecco che rifioriremo dalle crisi solo con un ritorno alle radici. Ma c’è solo una cosa che rende ammissibile il ritorno alla origini: il rallentamento del vorticoso girare in tondo dell’uomo contemporaneo. Preoccuparsi, allora, della persona e non del suo ruolo deve tornare ad essere il principio ispiratore del mondo.
Anche il mercato, allora, deve ritrovare la sua vocazione originaria. Deve, in altre parole tornare ad essere. Ciò che vale, infatti, per l’individuo vale anche per l’azienda e per il mercato, dal momento che l’impresa, come organismo vivente, è animata da molteplici dimensioni di cui spesso manca la conoscenza e a cui, ancora più spesso, manca l’educazione. E, come tale, occorre anche parlare di mercato come di un organismo vivo.
L’illusione dell’integrazione
Esso, scrive Papa Francesco in Oeconomicae et pecuniaries quaestiones, “può essere paragonato a un grande organismo nelle cui vene scorrono, come linfa vitale, ingentissime quantità di capitali. Prendendo a prestito questa analogia, possiamo parlare di una sanità di tale organismo, quando i suoi mezzi e apparati realizzano una buona funzionalità del sistema.”
Ciò di cui, in altre parole, sono ammalati il nostro tempo, l’economia e i mercati si chiama squilibrio tra le ragioni materiali, economiche, politiche e legate alle logiche di potere, e quelle immateriali, spirituali, valoriali, legate al rispetto per la vita umana e per le persone, in chiaro favore delle prime.
L’illusione dell’integrazione, dell’apertura al mondo, sbandierata nei decenni che hanno portato all’Europa Unita, ha rivelato la sua infondatezza con la persistenza dell’individualismo che indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza.
0 commenti