Nel libro “Imparare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione”, il filosofo e sociologo francese Edgar Morin scrive che la scuola dovrebbe aiutare a imparare a vivere. Ma in che modo questo principio così elevato si sposa con la qualità degli apprendimenti attuali? Insegnare a vivere è molto di più del semplice insegnare a leggere, scrivere e fare di conto, è molto di più insegnare le conoscenze di base della storia, della geografia, delle scienze sociali e delle scienze naturali. Insegnare non è concentrarsi sul sapere quantitativo o privilegiare la formazione professionale specializzata.
L’educazione occidentale
L’educazione occidentale, per quanto fornisca strumenti per vivere in società, gli elementi di una cultura generale e per quanto si sforzi di preparare i giovani al mondo del lavoro, soffre di una carenza enorme sul piano del bisogno primario di vivere: salvare l’individuo dall’illusione, dalla mistificazione della realtà, impedire che venga ingannato e sostenerlo nella sua necessità implicita di riconoscere fonti e cause di errori e falsità.
La matematica è, infatti, indispensabile per saper calcolare e per ragionare logicamente, esattamente come le scienze naturali lo sono per farci riconoscere nell’universo fisico e biologico, la storia per collocarsi nel passato e proiettarsi nel futuro, la geografia per insegnarci la storia e l’evoluzione del pianeta che abitiamo, la letteratura per facilitare la comprensione della complessità umana, la filosofia per mantenere vive le domande intorno all’esistenza, ma, purtroppo, sono materie insegnate in modo scollegato e indipendente, in tal modo fallendo l’obiettivo di costruire una vera cultura che sarebbe di aiuto permanente alla vita.
Vivere significa comprendere
Vivere è imparare ad affrontare continuamente rischi e incertezze ma a questo la scuola non prepara. E le incertezze rimandano alla complessità della realtà che, per essere correttamente interpretata, ha bisogno di un pensiero in grado di travalicare la logica binaria della riduzione e della disgiunzione.
Secondo Rachele Furfaro, autrice del libro “La buona scuola”, la scuola vive in un mondo autoreferenziale, che vive di regole proprie, che pensa, agisce, in modo scollegato dalle tensioni, dalle aspettative e dalle possibilità della società, che parla un linguaggio burocratico, standardizzato, astratto. La scuola, nel migliore dei casi, riduce l’educazione all’acquisizione di competenze tecniche, slegate dal mondo reale, dalla vita vera . Inconsapevolmente accrescendo il senso di inadeguatezza e tormentando le menti che passivamente finiscono per subire la parzialità delle informazioni tipiche della nostra epoca di erranza, di dinamismi incontrollati e accelerati, di offuscamento del futuro.
Vivere, al contrario, è essere continuamente esposti alle decisioni, nelle relazioni interpersonali come in quelle professionali. E saper vivere è agire e possedere conoscenze in grado di sostenere l’individuo nel suo bisogno di collocare oggetti ed eventi ciascuno nel proprio contesto e nella propria complessità, in quanto vivente che affronta i problemi della propria vita personale, in quanto cittadino della propria nazione e del mondo e in quanto appartenente al genere umano. Vivere è, in definitiva, avere continuamente bisogno di comprendere di essere compresi, in un’epoca che non è tuttavia quella della comprensione e del civile confronto con l’altro.
Il clima sociale
Così, l’incomprensione dilaga in famiglia, tra figli e genitori, genitori e figli, nella scuola, tra docenti e studenti, tra docenti e docenti, nei luoghi di lavoro, tra colleghi, superiori e sottoposti, in società, tra uomini e donne, tra cittadini e immigrati. Il problema dell’incomprensione dell’incomunicabilità consuma le vite degli uomini, genera condotte disdicevoli, aberranti e violente, causa infelicità e dolore.
Il punto è che la comprensione umana non viene insegnata in nessuna scuola e in nessun luogo. E l’educazione che riceviamo fin da bambini allontana dalla vita vera. poiché ignora i problemi permanenti della vita vera. La tensione al profitto della società tecnico-economica riduce l’educazione all’acquisizione di competenze professionali a scapito delle competenze esistenziali, che potrebbero produrre una rigenerazione della cultura, e a tutto detrimento dei temi vitali dell’insegnamento. Che, di conseguenza, vengono ignorati.
Il sapere tecnico
In tal modo, mentre da una parte cresce il Pil, accanto al benessere socio-economico prodotto del sapere tecnico, si diffonde un serpeggiante malessere psichico e morale delle persone, come diretta conseguenza dell’agio materiale. In realtà, è proprio il gap che si viene creando nella cultura occidentale tra essere e avere che reclama il recupero dell’arte di vivere, quale strumento necessario per arginare il galoppante degrado della qualità della vita sotto il regno del calcolo e della quantità, in cui l’essere umano è trattato sempre di più come un oggetto.
Si tratta, in definitiva, di introdurre un concetto di cultura che insegni la conoscenza della conoscenza, la sola che è traduzione e ricostruzione della realtà, metodo per dirigere la mente nella direzione auspicabile di affrontare e trovare le soluzioni ai problemi del vivere. Fidarsi delle teorie scientifiche, a cui stiamo affidando le nostre vite, è, come dimostra Popper, l’errore più grave che si possa commettere, dal momento che esse non sono depositarie di verità assoluta e definitiva . E ancor meno adatte a fornire mappe per orientarsi nella complessità.
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