L’evidenza, supportata da studi scientifici, spiega che l’inconscio impara prima (conoscenza implicita) e solo dopo informa la ragione, generando conoscenza esplicita (che si basa sulla memoria esplicita, a breve termine, di lavoro). La vera conoscenza è, dunque, quella implicita (che risiede nella memoria implicita, a lungo termine) che possiamo così definire: quello che le persone non sanno di sapere e che hanno immagazzinato in modo altamente funzionale (ad esempio, in modalità parallelizzata associata alle emozioni, secondo quando espresso nell’apprendimento multisensoriale creativo).
L’apprendimento efficace
L’apprendimento efficace è il trasferimento del ragionamento alla corteccia visiva per renderlo
- parallelizzato (tradotto in immagini),
- rapido,
- efficiente e, soprattutto,
- automatico (lungo la via ventrale).
L’acquisizione di conoscenze, infatti, si svolge in 2 tappe:
- la prima è un’intuizione (il corpo apprende prima della ragione; cioè, davanti ad alcuni quesiti, fornisce già informazioni che non vengono ascoltate: in altri termini, conosce la risposta ma non può esprimersi a parole)
- la seconda: le ragioni si fanno esplicite e si trasformano in regole che possono essere descritte a parole.
Per scoprire la conoscenza esplicita di una persona, basta chiederle di spiegare quello che sa di una data conoscenza. Basta lasciarla parlare, in altre parole, senza chiedere nulla di preciso ma solo di condividere quello che sa.
Ovvero, nessuna conoscenza ha senso proprio in sé ma lo acquisisce quando lo si può condividere.
Prima di continuare il discorso, mi fermo un momento per tornare sull’importanza del senso della vista (e, quindi, delle immagini) nei processi di apprendimento.
Imparare è vedere
L’immagine è un messaggio completo che non può essere rifiutato ed è già un concetto che comporta un preciso significato. In natura ha valore di sopravvivenza, come se la vista potesse metterci in salvo qualora scorgessimo un animale feroce. Per questo, vedere equivale a reale e vero.
Se consideriamo che più del 50% dei neuroni del cervello dell’uomo corrispondono all’entrata sensoriale della vista, appare molto chiaro perché questo coinvolgimento globale dei sensi permetta di immagazzinare contemporaneamente più informazioni, in parallelo, di quanto non accada con le parole che, ascoltate una dopo l’altra, seguono la via più rigida e labile dell’immagazzinamenti in serie delle informazioni.
Le informazioni archiviate, peraltro, finiscono nella memoria. E poiché solo l’1% delle informazioni archiviate arrivano alla memoria esplicita, la memoria cosciente, la maggior parte delle informazioni che creano il prodotto della mente che chiamiamo conoscenza è dato da contenuti inconsci, archiviati in forma di immagini grazie alla registrazione parallelizzata. Si può perfino sostenere che la vera conoscenza sia quella composta dalla memoria implicita, ovvero da tutte quelle informazioni che un individuo non ha coscienza di possedere.
L’aiuto dei classici
Socrate, del resto, nel suo “so di non sapere”, usa il verbo greco “orào” (che si traduce con “vedere” ma anche con “sapere”), il che ulteriormente spiega l’insegnamento di Edipo che si acceca per non vedere (e per non sapere di aver avuto una relazione incestuosa con la madre).
Tuttavia, quello che appare essere un grande vantaggio per l’apprendimento si rivela, al tempo stesso anche un limite. Il cervello dell’uomo, infatti, non riesce a discriminare le informazioni visive reali da quelle false. In fondo, e così che persone che non possiedono mezzi per una analisi critica delle informazioni vengono irretiti dai grandi comunicatori visivi (oggi le TV) come l’inquisitore Bernardino da Siena o il fondatore dell’ordine dei gesuiti Ignazio di Loyola, i quali, per sedurre e convincere, usavano un linguaggio visivo con minacce di punizioni e di condanna alle tenebre eterne.
L’istinto docente
Mettere qualcuno in condizione di condividere le proprie conoscenze, d’altro canto, permette di conoscere il paesaggio mentale che possiede. Si chiama
- istinto docente,
- è innato e
- comune a tutti.
In quanto esseri umani, possediamo, infatti, la capacità innata di
- diffondere e
- viralizzare la
conoscenza.
Questo è insegnare. O, meglio, questa è l’arte di insegnare. Ed è una peculiarità dell’uomo, una dote innata che non è comune a nessuna altra specie vivente: tutti insegniamo, anche quando nessuno ci insegna a farlo o come farlo. Evolutivamente, tuttavia, questa capacità (che serviva in origine ad informare i più piccoli dei possibili pericoli da cui guardarsi) ci ha definiti (secondo Antonio Battro) come esseri sociali.
Insegnare significa emancipare
Tra l’altro, insegnare, secondo una lettura evolutiva del termine, significa
- trasmettere conoscenze
- che devono rivelarsi utili per gli altri.
Cioè, la trasmissione della conoscenza deve emancipare chi la riceve, colmando un gap.
Ecco che insegnare implica già prevedere la ricaduta dell’atto del trasmettere la conoscenza, in termini di
- previsione delle risposte (in termini di re-azioni) dei destinatari e di
- ideazione di strategie e azioni conseguenti al feedback (da parte di chi insegna).
Se, allora, insegnare vuol dire, dunque, prevedere le azioni dell’altro per poi agire di conseguenza, allora ricompaiono ed acquisiscono un senso finalizzato alla nostra trattazione i concetti che ruotano intorno alla definizione
- dell’intelligenza interpersonale, come uno dei due momenti chiave dell’intelligenza emotiva,
- il cui momento centrale è l’empatia.
L’empatia
L’empatia, infatti, è la capacità di mettersi nei panni dell’altro e di prevederne i comportamenti. Se, dunque, l’insegnante potrà mettersi al posto del suo studente, prevedendone i comportamenti (ovvero, prevedendo come reagirà rispetto a quell’apprendimento), potrà al meglio modulare il proprio piano di insegnamento. Per questo l’insegnamento migliore è sempre quello che si ottiene quando ciò che l’insegnante sa incontra ciò che lo studente è, con la sua unicità.
Se, in definitiva, possediamo istinto docente, dovremmo insegnare in modo naturale ed efficace. Questa attitudine, però, si atrofizza con il tempo, se non viene allenata.
Sette virtù per insegnare
Ecco che le qualità dell’insegnante possono così essere riassunte:
- possedere una reale e completa conoscenza dell’argomento;
- conoscere gli studenti;
- possedere intelligenza emotiva (preliminarmente, autocontrollo e, di conseguenza, consapevolezza di sé ed empatia);
- motivare, entusiasmare, interessare (sapendo mettersi nei panni degli altri);
- allenare la creatività con cui trasmettere le informazioni (e adattarle ad ogni studente, personalizzando così l’insegnamento);
- usare in maniera congrua e funzionale la comunicazione non verbale (la gestualità, ad esempio, agisce prima e più delle parole) che nasce da una buona capacità ostensiva (l’ostensione è sfrondare i discorsi dalle parole);
- utilizzare una chiave comunicativa implicitamente condivisa da chi parla e da chi ascolta.
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