Trattando del rapporto con le parti buie della personalità, quelle che abbiamo detto essere convogliate nell’Ombra, ci siamo già occupati delle proiezioni sugli altri delle zone occulte e ostile della personalità e di come si importante integrare e assorbire questa parte impervia prima che si rivolti contro. In che modo possa accadere tutto ciò lo abbiamo ritrovato nelle mille facce della creatività: con l’arte, il teatro, la musica, la scrittura, la lettura, lo poesia. Per questo la fiaba autobiografica è un atto catartico, un esorcismo che mette faccia a faccia con se stessa la persona, prima della sua evoluzione verso la conquista del Sé, nella prateria della piena e consapevole individuazione.
Funzione di pacificazione della fiaba autobiografica
D’altro canto, la funzione di pacificazione è strettamente connessa con la funzione autoesplorativa a cui aggiunge, tuttavia, l’indagine introspettiva intorno
- alla ricerca dell’equilibrio,
- alla tolleranza della frustrazione (o, se vogliamo, alla resistenza emotiva),
- alla ricerca dell’autocontrollo, soprattutto rispetto al peso del giudizio esterno, tema oggi fin troppo sentito dalla vita social dei più, allorquando esso interferisca con la piena realizzazione di sé.
Tutti temi funzionali al perseguimento della pace interiore che è poi anche pace con il mondo delle relazioni.
Questa idea è, peraltro, ben rappresentata dalla cinematografia. Nel film “Charles Dickens, l’uomo che inventò il Natale”, ad esempio, è narrata la storia di uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi che, tuttavia, prima di partorire il libro “Un canto di Natale”, ha dovuto confrontarsi a lungo con la sua ombra e con le sue aree d’inefficacia.
Solo grazie a questo confronto con se stesso e all’armonia (come lotta fra gli opposti) ritrovata, Dickens riesce a regalare all’occidente letterario un romanzo ispirato che, appena dopo l’uscita (siamo nel dicembre del 1843), contagia milioni di persone con sentimenti di perdono, fratellanza, compassione e amore che restituiscono al Natale quei sentimenti di calore, di affetto e di famiglia a cui tutti siamo ancora oggi abituati.
Il giudice interiore
Il messaggio è così rivolto a tutti: perdonarsi e far pace con se stessi, impegnandoci ogni giorno ad essere autenticamente un po’ più noi stessi, è l’unico modo per essere d’aiuto a qualcuno. Altrimenti, si finisce per essere d’aiuto solo a se stessi o per assecondare bisogni insoddisfatti.
D’altro canto, è notorio che uno degli indicatori dei personali livelli di intelligenza emotiva, osservabili attraverso l’autostima delle persone, è la capacità di gestire l’altrui giudizio.
Ma quando il giudizio degli altri ci preoccupa? Provo a spiegare con parole semplici quello che solitamente accade nella nostra società che non riesce a sospendere il giudizio, che, viceversa, è sempre vigile e, da molti di vista, regola i comportamenti. Una società schiacciata dal peso del giudizio esterno è necessariamente una società malata, perché sofferenti sono i modelli di relazione che può offrire. Chi dipende dal giudizio altrui, d’altro canto, ha e avrà sempre relazioni sofferenti. Ma, per non subire il giudizio esterno, occorre rinunciare a giudicare. Sempre che ne siamo capaci. Ecco come può aiutare il Metodo Autobiografico Creativo.
Vivere in armonia
Siamo fatti di un’anima e di un governo di sé, l’Io, di una parte istintiva e irrazionale e di una parte razionale, dunque. Se anima e Io sono armonici e saldamente fusi, se, dunque, viviamo una condizione di benessere (la medicina orientale considera malessere la mancanza di fusione tra le diverse dimensioni, ragione ed emozioni, mente e corpo), siamo strutturati, forti e corazzati abbastanza da ammettere che altri possano giudicare come meglio credono, senza che questo diventi un problema.
“L’altro mi vede così? Pazienza. Vuolo dire che, per lui o per lei, in questo momento è così. Semmai, io potrò prendermi la responsabilità di mettermi in discussione, riflettendo sulle ragioni che abbiano indotto l’altra persona a giudicarmi così.” Fine del discorso.
Se, però, manca l’io, della personalità emergono le posizioni depressiva e narcisistica, in equilibrio tra le quali vive l’Io strutturato. Queste due parti, però, non sono attrezzate per elaborare il giudizio ma possono solo reagire meccanicamente ad esso (con la rabbia o con i sensi di colpa).
L’Io, quando è presente, infatti, non è legato all’immagine di sé, esattamente come l’anima. Ciò, l’anima e l’Io non sono attaccati a ciò che vogliamo che gli altri pensino di noi ma solo alla realtà, alla verità. Per l’anima e per l’Io, l’immagine è priva di ogni interesse. Poiché, dunque, il giudizio tocca l’immagine di sé, è come se esso si facesse strada tra le maglie larghe di un Io debole che reagisce arrabbiandosi o colpevolizzandosi.
Amabilità e autostima
Costruire un’immagine di sé e vedersi disconfermati dal giudizio altrui è come se facesse cadere il motivo della stessa amabilità della persona. Per questo, un Io poco strutturato produce avversione verso il giudizio.
Il punto è che tutti, chi più, chi meno, recitiamo un copione sul palcoscenico della vita. E quando recitiamo diventiamo il personaggio che ci assegniamo. Anzi, secondo le circostanze, diventiamo uno dei personaggi dell’intera compagni che portiamo in scena. Peraltro,
- più la società sposta l’attenzione sull’apparire,
- più il personaggio interno (l’immagine ideale di sé) si attiva.
- E più ancora pesa il giudizio esterno.
Raccontare di sé in modo diretto, infatti, attiva il personaggio interno di ognuno, la rappresentazione ideale di sé. La maschera sociale, insomma, che, in molti casi, può distrarre dalla conoscenza e dalla comprensione
- dei processi cognitivi spontanei,
- dei canali sensoriali privilegiati per l’apprendimento e
- della continuità del pensiero,
la cui presa di coscienza è, viceversa, fondamentale per la crescita personale e per lo sviluppo dell’intelligenza emotiva.
L’autobiografia creativa
Se, dunque, ogni lavoro autobiografico è un’attività sulla memoria storica di sé (meglio dire sul ricordo) per comprendersi meglio, rimanere sul piano rigidamente cognitivo, come scrivere o narrare della propria vita senza paracadute creativi,
- al di là delle difese e resistenze che attiva,
- rischia di minare i percorsi educativi e formativi
in cui viene esso applicato largamente.
Parlare frontalmente di sé implica, infatti, l’adozione di
- codici espressivi di tipo digitale, limitati ai contenuti e focalizzati sul significato (il “che cosa”),
- mentre usare il medium creativo sposta l’attenzione verso un linguaggio analogico, basato sul significante (il “come”) e sugli aspetti di relazione.
E il linguaggio analogico è il linguaggio delle emozioni con cui, grazie alla fiaba e alla metafora attraverso cui si esprime, si impara a prendere confidenza per migliorare se stessi e le relazioni con il mondo.
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