Un’indagine italiana, dal titolo « Quello che succede al paziente quando il medico gli parla », incentrata sull’approfondimento del rapporto medico-paziente per monitorare gli atteggiamenti del primo finalizzati ad alleviare la sofferenza del secondo, analizza diversi stili comunicativi in relazione ai principali bisogni che esprime il paziente in attesa di essere informato. Emerge la necessità per i medici di allenare l’empatia.
I bisogni del paziente
Lo studio affonda le radici in un lavoro portato avanti, già in precedenza, dalla Fondazione Giancarlo Quarta Onlus, pubblicato dalla testata giornalistica di settore AdnKronos Salute.
- Il primo è il bisogno di capire ciò che una persona vive quando si trova catapultata nel mondo sconosciuto di una malattia. Lo stile comunicativo, in questo caso, è improntato alla razionalità.
- Poi c’è il bisogno di sicurezza nel futuro: per il paziente, l’orizzonte è sempre pieno di preoccupazioni. A questo bisogno viene abbinato uno stile comunicativo improntato alla continuità.
- Seguono il “bisogno di essere compresi emotivamente ed essere a proprio agio nella situazione” e il “bisogno di attenzione“, aree di necessità emotiva e relazionale del paziente. Gli stili comunicativi abbinati a questi bisogni possono essere definiti “empatico”, il primo (per favorire l’espressione di sentimenti ed emozioni con manifestazioni di disponibilità, per tranquillizzare, motivare e infondere speranza), e “improntato all’ascolto”, il secondo.
L’esame di empatia
Le recenti tecniche di neuroimaging (risonanza magnetica funzionale) evidenziano specifiche attivazioni cerebrali correlate alle differenti modalità interattive (comunicative e comportamentali) rispetto ai due principali bisogni emotivi del paziente (comprensione emotiva e attenzione). Il riconoscimento che il medico tributa al suo paziente (come, ad esempio, ascoltarlo con trasporto o chiamarlo per nome), secondo l’indagine, crea un clima di condivisione che si rivela utile per superare il senso di spersonalizzazione che comporta la malattia.
Afferma Fabio Sambataro (nella foto), Professore Associato di Psichiatria all’Università degli Studi di Udine, che “per i camici bianchi serve l’esame di empatia”. Questo perché i comportamenti di valorizzazione attivano la sfera sensoriale, mentre i comportamenti di influenzamento (come l’ascolto empatico) si traducono nell’acquisizione di comportamenti virtuosi da parte della persona ascoltata.
“Ma la verità”, continua Sambataro, “è che oggi i medici non sono preparati a comunicare col paziente. Nelle Università italiane, nel contesto della Facoltà di Medicina, ci sono corsi di psicologia clinica che sono, però, troppo teorici rispetto al bisogno di pratica.”
Training in empatia
Prevedere un ‘training dell’empatia‘ per i medici sarebbe importantissimo per la qualità delle relazioni che hanno una notevole incidenza nella cura. Sambataro ad AdnKronos Salute ammette che “tra gli anni ’50 e ’70 c’è stata una rivoluzione della medicina che ci ha permesso di diventare sempre più tecnici e molto meno orientati al paziente, con un processo che si chiama ‘de-umanizzazione‘.
Qualcuno pensa che il distacco sia d’aiuto al malato. In realtà, se è vero che il ‘sentire’ la stessa cosa che sente il paziente non è utile, il ‘capire‘ quello che sente è fondamentale“. Ma, sorprendentemente, il medico molto spesso non ha una grande percezione di quello che vive il suo paziente.
“Un’altra ricerca – continua il prof. Sambataro – ha rilevato che solo il 23% dei pazienti riesce a dire il motivo per cui è andato a farsi visitare. Mediamente, dopo circa 18 secondi, il medico lo interrompe e non vuole più sentire. Neanche un minuto su venti è dedicato a trasmettere informazioni”. Nè i pazienti domandano maggiore attenzione, per imbarazzo, rispetto, discrezione o timidezza. Ma non dovrebbe essere così per chi richiede ascolto e comprensione.
La timidezza
La timidezza, scrive lo psichiatra Eugenio Borgna ne “Le parole che ci salvano“, è una forma di vita fragile che può rompersi molto facilmente. Basta un gesto, un sorriso negato, anche uno sguardo evitato o delle parole che fragili non sono (e che possono apparire aride o inanimate) e, in un attimo, la timidezza viene ferita e umiliata. Ecco che, quando la timidezza è ferita e lacerata, rimangono solo schegge che è difficile ricomporre. Le ferite non si cicatrizzeranno mai più.
Così, la timidezza induce al nascondimento a causa
- dell’indifferenza,
- dell’incomunicabilità
- e dell’inautenticità
delle relazioni di cui essa si circonda. Sorprende che possa farsi largo nel contatto con chi deve sapere come fare a prendersi cura delle debolezze altrui. Eppure, accade.
La timidezza appartiene all’adolescenza, anche quando gli anni scorrono temerari. Per questo, la timidezza può e deve essere toccata, sfiorata solo con grande cura, con grande leggerezza, perché diversamente essa, con troppa facilità, si sfalda. E, come dice Borgna, si dissolve come sabbia tra le dita. Con essa, si dissolvono le relazioni evanescenti, quelle che non sanno capirla e accoglierla.
La maschera della timidezza
La timidezza non si riconosce subito nelle maglie segrete dell’esistenza; si nasconde, si maschera. Tuttavia, lì, in quello spazio in cui tende a scomparire, resta agonizzante senza mai morire. E grida nel silenzio la sua sofferenza. Ma la timidezza serve. La timidezza è salvifica, perché è grazie ad essa che riusciamo a ritrovare noi stessi. E, con noi stessi, anche leggerezza e sensibilità che ci permettono di costruire relazioni intense e positive.
Non c’è timidezza, infatti, che non si accompagni a sensibilità e a insicurezza. In fondo, è quello che accade per gli adolescenti che, nel turbinio di emozioni nel passaggio da un’età improblematica (quella dell’infanzia) a una adulta, piena di responsabilità, si pongono mille domande sul senso della vita e creano degli ideali. Essi richiedono di essere ascoltati in un momento in cui
- trascuratezza,
- noncuranza e
- indifferenza
caratterizzano lo stile relazionale delle figure d’aiuto (gli adulti, i genitori, gli educatori).
Le “clinical skill”
La scuola, infatti, parla il linguaggio razionale degli insegnanti e nega la parte della comunicazione con intelligenza emotiva che è incentrata sull’ascolto (che, per inciso, è ciò di cui gli adolescenti hanno più concretamente bisogno). Poi le persone diventano adulte. E la società si colpevolizza per aver prodotto freddi burocrati che non possiedono educazione emotiva.
“In USA queste pratiche sono già più avanti”, riflette lo psichiatra. “Nel processo di accreditamento del medico esiste una prova clinica pratica di verifica delle sue ‘clinical skill‘ in cui si testa anche la comunicazione medico-paziente. È parte dell’esame. C’è un attore che recita una parte e degli esaminatori valutano il feeeback in relazione a come questo attore percepisca la comunicazione. Stesso discorso per la specializzazione, che prevede non solo l’ottenimento ma anche esami periodici per mantenerla. Anche in questo contesto si considera la capacità di comunicazione col paziente”.
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