Per quanto vogliamo cedere alle lusinghe del web e delle app che permettono la gestione dei rapporti con i pazienti, bisognerebbe rammentare che il rapporto umano viene prima di ogni cosa. Un principio che vale ovunque, a scuola, in corsia, in tribunale, nello studio del commercialista. Tra medico e paziente, tuttavia, un po’ più che altrove, visto che la spersonalizzazione del rapporto, che si determina se manca il contatto visivo, lo sguardo che dà conforto e la giusta parola, detta nel modo giusto e al momento giusto, il rischio di deumanizzazione, insito nell’uso smodato delle tecnologie, è troppo alto. Ecco perché l’ascolto è sempre la prima regola della buona comunicazione. Solo ascoltando, in fondo, si possono comprendere intimamente i bisogni delle persone.
L’ascolto
Quando il medico incontra il paziente e la sua famiglia, niente può, infatti, sostituire il calore della gestualità, di un sorriso, di uno sguardo benevolo che faccia percepire che il terapeuta è sinceramente dalla parte dell’ammalato. Comunicare, saper comunicare con intelligenza emotiva è la dote più importante per un medico. Filippo de Braud, Ordinario di Oncologia a Milano, afferma che “se c’è un modo per non intendersi, è eliminare il linguaggio del corpo“. Poiché il medico deve saper dare ogni tipo di notizia senza accrescere le emozioni “negative” della persona che ha di fronte, è obbligato a non perdersi quella parte della condivisione che risiede nell’anima, non nella logica di fredde parole.
Soprattutto, occorre trasmettere ai medici più giovani quanto sia importante fare attenzione alla comunicazione. In un’epoca in cui sembra di moda tornare alle basi fondamentali dei valori e delle emozioni per salvarsi dal caos imperante, recuperare modelli virtuosi di comunicazione significa accodarsi, anche nel campo medico, a un’evoluzione culturale favorevole.
Prendere esempio da persone che sanno comunicare o insegnare come si fa è un buon inizio. Perché, per capire le persone, bisogna conoscerle. E, per capirle, bisogna condividere con loro emozioni, empatizzare. Bisogna, in altre parole, essere sinceramente interessati a loro per riuscirci.
Come si fa?
L’ascolto attivo si affina con gli esercizi di empatia, ad esempio in simulazioni e feedback o con l’ausilio di vignette che ripropongono situazioni reali o videogame con alieni per protagonisti che devono decifrare le emozioni sul viso delle altre persone. La Società di Ortopedia degli Stati Uniti ne ha già verificato gli effetti, al termine di training di 4-5 mesi. A dimostrazione del fatto che le competenze emozionali possono essere apprese (o, meglio, ri-apprese).
Da noi di tutto questo si fa poco. Addirittura, gli eventi in cui si parla di emozioni e relazioni o nelle relazioni d’aiuto (scuola, clinica, comunità) vengono disertati (se non sabotati) a vantaggio di (spesso) noiosi seminari tecnici o congressi che non insegnano nulla di tutto questo. Come se parlare di emozioni e relazioni fosse una faccenda da donne (che, per inciso, sono le uniche che frequentano questo tipo di appuntamenti).
Eppure, conoscere le basi neurobiologiche dell’empatia porta al miglioramento della relazione medico-paziente. Che è una grossa parte della cura. I medici lo sanno (o dovrebbero saperlo, almeno teoricamente) molto bene.
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