« Se potete scegliere tra essere giusti ed essere gentili, siate gentili ». Con questa frase si chiude, in un crescendo emozionante, il film « Wonder ». Film in cui impariamo anche che « il più grande è colui il quale trascina i cuori grazie all’attrazione del proprio ». E che « la grandezza non sta nella forza ma nel corretto uso della forza ». Quanta forza c’è nelle nostre parole? Che uso improprio si fa del potere della parola nelle relazioni sbilanciate? Domandiamoci adesso: che cosa accade se, però, quella relazione sbilanciata vede coinvolti un medico e il suo paziente? Il giovane August, protagonista di Wonder, è un bambino con una grave malformazione facciale, che riesce a farsi apprezzare e amare per la grandezza del suo cuore che sbaraglia le vessazioni del bullo della scuola. Un grande insegnamento per chi non valuta appieno lo straripante potere dei piccoli gesti e della parola nella relazione, specie in quella clinica.
La speranza è un farmaco
«Le parole sono il mezzo principale per indurre aspettative positive, fiducia e speranza», afferma Fabrizio Benedetti (nella foto), neuroscienziato dell’Università di Torino, autore del libro “La speranza è un farmaco” (ed. Mondadori), uno tra i massimi esperti internazionali del placebo e della sua applicazione nella pratica clinica.
Serve una buona dose di sensibilità per approcciare gli altri. Per approcciare la loro unicità, invece, la sensibilità non basta più: serve una sovrasensibilità. Se addirittura siamo medici, servono sovrasensibilità e le parole giuste.
Perché uno sguardo benevolo, compassionevole, di conforto sono impagabili se accompagnati con le parole che danno speranza a chi è in attesa di un responso. E vede la propria vita (e quella dei propri cari) appesa alla ragnatela delle parole a cui aggrapparsi per avere un futuro da sognare.
Fragile è la speranza
La speranza è fragile, perché non vive del presente ma del futuro, di un futuro che non c’è, di una dipendenza da ciò che si vorrebbe ottenere ma che non rappresenta alcuna garanzia, alcuna certezza. Lo scrive Eugenio Borgna ne “Le parole che ci salvano“. Quando speriamo, diventiamo fragili, vulnerabili, permeabili alle ferite, apparentemente inconsistenti. Ma la speranza ha una sua durata e anche una sua tenuta psicologica umana che sono in sostanziale contraddizione con la sua fragilità. E la friabilità della speranza si manifesta in ogni condizione depressiva che non sia malinconia-stato d’animo ma malinconia-malattia.
Quanta disperazione c’è, infatti, in chi vive la perdita della speranza a causa di una patologia? Che sia una patologia neurologica, una demenza di Alzheimer o una condizione di depressione, la fragilità che comporta la nuova condizione del corpo e dello spirito, di fatto, cancella definitivamente l’aspettativa per il futuro. Azzera, in altre parole, la speranza e accresce la condizione di fragilità che è insita con essa stessa. “Non ho niente a cui aggrapparmi”, afferma Maria Teresa una paziente dello psichiatra Borgna. “Non ho più nulla che mi dia un senso di vita. Mi sento disperata: almeno piangessi. Non riesco a piangere. Se potessi sperare nel suicidio, se potessi scegliere la mia morte, sopporterei meglio questa terribile sofferenza, perché ne conoscerei la fine. Invece, non ho neanche la speranza della morte, non ho neanche questa speranza. Non ho più alcuna speranza.”
La speranza, dunque, è fragile e si frantuma facilmente davanti agli eventi dolorosi della vita, dell’esistenza, a causa delle malattie. Serve, pertanto, imparare a riconoscerla, provare a proteggerla, perché proteggere la speranza è il modo migliore per continuare a essere in relazione con il mondo delle persone e delle cose. Che per definizione è fatto di parole e di piccoli gesti. E di essi si nutre.
La parole fanno
Le parole, dunque, fanno. La speranza che esse possono esprimere è, tuttavia, troppo spesso affidata a una gentilezza che va indossata prima del camice bianco. Ma che in natura si fa merce sempre più rara.
La prima cura, però, è il modo in cui il medico comunica con il suo paziente, dalla parola al tono, al gesto, impregnati di umanità e di gentilezza.
«Dal punto di vista neuroscientifico», ha dichiarato Benedetti in una recente intervista a Corriere.it, «oggi le parole sono passate da simboli astratti a vere e proprie potenti frecce che colpiscono gli stessi bersagli biochimici dei farmaci. Ed è proprio questo il concetto che oggi sta emergendo: parole e farmaci usano gli stessi meccanismi d’azione. L’effetto, peraltro, può essere misurato con sofisticate tecniche di bioimmaging. Tecniche che ci permettono di vedere cosa succede nel cervello del paziente quando interagisce con il proprio medico o, più in generale, con il proprio terapeuta».
Parole come lame affilate
« Dai genitori non erediti solo le case ma anche le malattie » e « non sarai eterno ». Queste mi sono state raccontate. Mentre « questa alla prossima dialisi fa un infartone e ci resta secca » l’ho sentito dire dal medico che aveva in cura mia madre, una settimana prima che se ne andasse per un’infezione che proprio lui non aveva capito.
Come non dimenticherò l’espressione impassibile del medico che venne in sala d’attesa ad annunciarci il decesso del nostro amico o l’« ehi » che fu urlato a me, assorto nel telefono, mentre ero in sala d’attesa al pronto soccorso della mia città.
Quanta gente indifesa e sguarnita si lascia umiliare dalla mancanza di tatto e si tiene la noncuranza delle parole di persone in camice bianco?
Già, le parole possono essere macigni. E oggi ne abbiamo le prove. Le fotografie del cervello in azione, come afferma Benedetti, dimostrano che le parole gentili di un medico, pronunciate nel modo migliore e nel momento opportuno scatenano una reazione neurale, e favoriscono comportamenti virtuosi da parte di persone che sono, così, incoraggiate ad affrontare le malattie con speranza.
Basta una parola. Purché sia quella giusta.
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