La storia di Shahrazad, con cui si aprono i racconti delle “Mille e una notte”, è il trionfo della parola sul corpo, dell’astuzia e dell’intelligenza femminile sul fascino fisico esercitato dal piacere carnale. La fanciulla conquista il sultano non con la dolcezza dei suoi atti amorosi ma con il garbo e con il fascino delle parole che seducono la mente e il cuore. Con il suo incipit “Sire, c’era una volta...”, Shahrazad introduce un viaggio fantastico di intelligente seduzione che piace a chi si concede il tempo di gustare il valore della parola.Continua a leggere
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Comunicazione ed emozioni: nel segno della parola
Che cosa vuol dire comunicare con intelligenza emotiva? Cioè, in che modo la comunicazione si sposa in definitiva con la consapevolezza delle nostre emozioni, la consapevolezza di noi stessi, la consapevolezza della nostra dimensione sociale e della gestione corretta delle relazioni con gli altri? La premessa è nella necessità di riflettere su come tutta la nostra unicità si esprima nella nostra comunicazione - che, quindi, crea relazione con gli altri - e su quanto sia fondamentale possedere un’egemonia su tutto questo. Serve, infatti, consapevolezza per correggere opportunamente gli elementi disfunzionali dei nostri comportamenti che, attraverso l’uso della parola, hanno il potere di rendere inefficaci e infelici le relazioni.
Comunicazione e consapevolezza
Dal mio punto di vista, non dovrebbero esistere tecniche di comunicazione, perché è contraddittorio che debba esserci una tecnica per esprimere, attraverso un atto linguistico, quello che realmente si prova in una data situazione. È come camuffare e, di conseguenza, mistificare il messaggio profondo che, in tal modo, perde la sua autenticità. Meglio parlare di percorsi di consapevolezza - ad uso dei viventi parlanti - per arrivare a capire che tutta la nostra storia, ciò che noi siamo, e le nostre emozioni sono contemporaneamente presenti in ogni nostro atto, sia esso un comportamento verbale, non verbale o para-verbale.
Una simile ammissione di responsabilità ha il dono di portare l’attenzione sulla necessità che tutto questo a noi debba esser noto, se il nostro obiettivo è puntare alla felicità delle relazioni.
La felicità è, infatti, un concetto “tipicamente femminile” che, etimologicamente, rimanda alla forza creatrice, alla fertilità e alla maternità. Quindi, si realizza con un atto sociale che va molto oltre il singolo individuo. Per questo si esprime nella comunicazione coerente con gli altri, atto in cui e di cui “aver cura”, al fine di costruire invece di distruggere.
Benessere e relazioni
Per comunicare bene, allora, occorre ben-essere. L'armonia, la lotta tra gli opposti che tiene in equilibrio le nostre esistenze, nasce dal coraggio di
- esplorare,
- osservare da un altro punto di vista le luci e le ombre della nostra storia che si esprimono nei comportamenti manifesti e, finalmente,
- conquistare la consapevolezza di come le stesse luci e ombre possano rendere efficaci o inefficaci i nostri modi di essere.
Con gli altri, al fine di orientarli opportunamente a generare fiducia nelle relazioni, ma anche e soprattutto con noi stessi, perché un dialogo interiore franco ha il potere della pacificazione che porta benessere anche nelle relazioni con il mondo.
Star bene, dunque, deve essere per noi il veicolo per creare delle relazioni gratificanti.
[jpshare]Il potere della parola
Riporto, allora, un bellissimo contributo che il Professor Pietro Salvatore Reina ha scritto per il mio libro “Comunicare con intelligenza emotiva”, contributo che credo possa sintetizzare opportunamente la missione di avere e di concepire un percorso basato sulla consapevolezza di sé e sugli atti comunicativi intenzionali per costruire delle relazioni sane.
Uno degli aspetti chiave dell'opera "Comunicare con intelligenza emotiva" (volume e corso online) è illustrare, riparare e spiegare le parole, i fili del discorso che tessono, legano e danno un senso alla nostra vita. Stefano Centonze ci ricorda che l’uomo non è solo zoon politikon, sulle spalle del gigante Aristotele, ma anche zoon logon echon, il vivente che possiede la parola. Il logos è diverso dal muggito e dal grugnito di un animale: il logos è una voce che esprime piacere, gioia, dolore; il logos consente di discutere su cosa sia giusto e ingiusto, bene o male.
Solo attraverso il logos si perviene
- alla collaborazione,
- allo scambio,
- all’amicizia tra gli uomini.
Comunicare con intelligenza emotiva
In poche parole, Comunicare con intelligenza emotiva è uno strumento su come migliorare la qualità delle relazioni per migliorare la qualità della vita, della vita di ciascuno di noi e della vita delle nostre città, e su come tornare a essere cittadini della parola, delle parole e del linguaggio. Un vademecum che, come pochi altri pubblicati, offre una strada, una via, un percorso, un itinerario per entrare realmente e meravigliosamente in contatto con l’altro, con gli altri.
In un testo incastonato nella silloge “Le parole che ci salvano” del critico letterario Giovanni Pozzi si legge: La parola è il tratto distintivo dell’uomo non perché aggiunto alla sua natura ma perché suo costitutivo. L’uomo nasce, si sviluppa, si modella e si esprime entro un linguaggio. Ma il linguaggio porta necessariamente al dialogo ed è perciò la piattaforma sulla quale si realizza l’incontro io-tu.
Credo che con le parole di Giovanni Pozzi si possa decisamente dare inizio allo studio del modello dell’intelligenza emotiva per una buona comunicazione con gli altri.
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Relazione medico-paziente: la prima regola per una buona comunicazione è l’ascolto
Per quanto vogliamo cedere alle lusinghe del web e delle app che permettono la gestione dei rapporti con i pazienti, bisognerebbe rammentare che il rapporto umano viene prima di ogni cosa. Un principio che vale ovunque, a scuola, in corsia, in tribunale, nello studio del commercialista. Tra medico e paziente, tuttavia, un po’ più che altrove, visto che la spersonalizzazione del rapporto, che si determina se manca il contatto visivo, lo sguardo che dà conforto e la giusta parola, detta nel modo giusto e al momento giusto, il rischio di deumanizzazione, insito nell’uso smodato delle tecnologie, è troppo alto. Ecco perché l'ascolto è sempre la prima regola della buona comunicazione. Solo ascoltando, in fondo, si possono comprendere intimamente i bisogni delle persone.
L'ascolto
Quando il medico incontra il paziente e la sua famiglia, niente può, infatti, sostituire il calore della gestualità, di un sorriso, di uno sguardo benevolo che faccia percepire che il terapeuta è sinceramente dalla parte dell’ammalato. Comunicare, saper comunicare con intelligenza emotiva è la dote più importante per un medico. Filippo de Braud, Ordinario di Oncologia a Milano, afferma che “se c'è un modo per non intendersi, è eliminare il linguaggio del corpo". Poiché il medico deve saper dare ogni tipo di notizia senza accrescere le emozioni “negative” della persona che ha di fronte, è obbligato a non perdersi quella parte della condivisione che risiede nell’anima, non nella logica di fredde parole.
Soprattutto, occorre trasmettere ai medici più giovani quanto sia importante fare attenzione alla comunicazione. In un’epoca in cui sembra di moda tornare alle basi fondamentali dei valori e delle emozioni per salvarsi dal caos imperante, recuperare modelli virtuosi di comunicazione significa accodarsi, anche nel campo medico, a un'evoluzione culturale favorevole.
Prendere esempio da persone che sanno comunicare o insegnare come si fa è un buon inizio. Perché, per capire le persone, bisogna conoscerle. E, per capirle, bisogna condividere con loro emozioni, empatizzare. Bisogna, in altre parole, essere sinceramente interessati a loro per riuscirci.
Come si fa?
L'ascolto attivo si affina con gli esercizi di empatia, ad esempio in simulazioni e feedback o con l’ausilio di vignette che ripropongono situazioni reali o videogame con alieni per protagonisti che devono decifrare le emozioni sul viso delle altre persone. La Società di Ortopedia degli Stati Uniti ne ha già verificato gli effetti, al termine di training di 4-5 mesi. A dimostrazione del fatto che le competenze emozionali possono essere apprese (o, meglio, ri-apprese).
[jpshare]Da noi di tutto questo si fa poco. Addirittura, gli eventi in cui si parla di emozioni e relazioni o nelle relazioni d’aiuto (scuola, clinica, comunità) vengono disertati (se non sabotati) a vantaggio di (spesso) noiosi seminari tecnici o congressi che non insegnano nulla di tutto questo. Come se parlare di emozioni e relazioni fosse una faccenda da donne (che, per inciso, sono le uniche che frequentano questo tipo di appuntamenti).
Eppure, conoscere le basi neurobiologiche dell'empatia porta al miglioramento della relazione medico-paziente. Che è una grossa parte della cura. I medici lo sanno (o dovrebbero saperlo, almeno teoricamente) molto bene.
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Sambataro: “I medici dovrebbero sostenere l’esame di empatia”
Un’indagine italiana, dal titolo « Quello che succede al paziente quando il medico gli parla », incentrata sull'approfondimento del rapporto medico-paziente per monitorare gli atteggiamenti del primo finalizzati ad alleviare la sofferenza del secondo, analizza diversi stili comunicativi in relazione ai principali bisogni che esprime il paziente in attesa di essere informato. Emerge la necessità per i medici di allenare l'empatia.
I bisogni del paziente
Lo studio affonda le radici in un lavoro portato avanti, già in precedenza, dalla Fondazione Giancarlo Quarta Onlus, pubblicato dalla testata giornalistica di settore AdnKronos Salute.
- Il primo è il bisogno di capire ciò che una persona vive quando si trova catapultata nel mondo sconosciuto di una malattia. Lo stile comunicativo, in questo caso, è improntato alla razionalità.
- Poi c’è il bisogno di sicurezza nel futuro: per il paziente, l’orizzonte è sempre pieno di preoccupazioni. A questo bisogno viene abbinato uno stile comunicativo improntato alla continuità.
- Seguono il “bisogno di essere compresi emotivamente ed essere a proprio agio nella situazione" e il "bisogno di attenzione", aree di necessità emotiva e relazionale del paziente. Gli stili comunicativi abbinati a questi bisogni possono essere definiti “empatico”, il primo (per favorire l’espressione di sentimenti ed emozioni con manifestazioni di disponibilità, per tranquillizzare, motivare e infondere speranza), e “improntato all'ascolto”, il secondo.
L’esame di empatia
Le recenti tecniche di neuroimaging (risonanza magnetica funzionale) evidenziano specifiche attivazioni cerebrali correlate alle differenti modalità interattive (comunicative e comportamentali) rispetto ai due principali bisogni emotivi del paziente (comprensione emotiva e attenzione). Il riconoscimento che il medico tributa al suo paziente (come, ad esempio, ascoltarlo con trasporto o chiamarlo per nome), secondo l’indagine, crea un clima di condivisione che si rivela utile per superare il senso di spersonalizzazione che comporta la malattia.
Afferma Fabio Sambataro (nella foto), Professore Associato di Psichiatria all'Università degli Studi di Udine, che “per i camici bianchi serve l’esame di empatia”. Questo perché i comportamenti di valorizzazione attivano la sfera sensoriale, mentre i comportamenti di influenzamento (come l’ascolto empatico) si traducono nell'acquisizione di comportamenti virtuosi da parte della persona ascoltata.
“Ma la verità”, continua Sambataro, “è che oggi i medici non sono preparati a comunicare col paziente. Nelle Università italiane, nel contesto della Facoltà di Medicina, ci sono corsi di psicologia clinica che sono, però, troppo teorici rispetto al bisogno di pratica.”
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Training in empatia
Prevedere un 'training dell'empatia' per i medici sarebbe importantissimo per la qualità delle relazioni che hanno una notevole incidenza nella cura. Sambataro ad AdnKronos Salute ammette che “tra gli anni '50 e '70 c'è stata una rivoluzione della medicina che ci ha permesso di diventare sempre più tecnici e molto meno orientati al paziente, con un processo che si chiama 'de-umanizzazione'.
Qualcuno pensa che il distacco sia d'aiuto al malato. In realtà, se è vero che il 'sentire' la stessa cosa che sente il paziente non è utile, il 'capire' quello che sente è fondamentale". Ma, sorprendentemente, il medico molto spesso non ha una grande percezione di quello che vive il suo paziente.
“Un'altra ricerca - continua il prof. Sambataro - ha rilevato che solo il 23% dei pazienti riesce a dire il motivo per cui è andato a farsi visitare. Mediamente, dopo circa 18 secondi, il medico lo interrompe e non vuole più sentire. Neanche un minuto su venti è dedicato a trasmettere informazioni”. Nè i pazienti domandano maggiore attenzione, per imbarazzo, rispetto, discrezione o timidezza. Ma non dovrebbe essere così per chi richiede ascolto e comprensione.
La timidezza
La timidezza, scrive lo psichiatra Eugenio Borgna ne "Le parole che ci salvano", è una forma di vita fragile che può rompersi molto facilmente. Basta un gesto, un sorriso negato, anche uno sguardo evitato o delle parole che fragili non sono (e che possono apparire aride o inanimate) e, in un attimo, la timidezza viene ferita e umiliata. Ecco che, quando la timidezza è ferita e lacerata, rimangono solo schegge che è difficile ricomporre. Le ferite non si cicatrizzeranno mai più.
Così, la timidezza induce al nascondimento a causa
- dell'indifferenza,
- dell’incomunicabilità
- e dell'inautenticità
delle relazioni di cui essa si circonda. Sorprende che possa farsi largo nel contatto con chi deve sapere come fare a prendersi cura delle debolezze altrui. Eppure, accade.
La timidezza appartiene all'adolescenza, anche quando gli anni scorrono temerari. Per questo, la timidezza può e deve essere toccata, sfiorata solo con grande cura, con grande leggerezza, perché diversamente essa, con troppa facilità, si sfalda. E, come dice Borgna, si dissolve come sabbia tra le dita. Con essa, si dissolvono le relazioni evanescenti, quelle che non sanno capirla e accoglierla.
La maschera della timidezza
La timidezza non si riconosce subito nelle maglie segrete dell'esistenza; si nasconde, si maschera. Tuttavia, lì, in quello spazio in cui tende a scomparire, resta agonizzante senza mai morire. E grida nel silenzio la sua sofferenza. Ma la timidezza serve. La timidezza è salvifica, perché è grazie ad essa che riusciamo a ritrovare noi stessi. E, con noi stessi, anche leggerezza e sensibilità che ci permettono di costruire relazioni intense e positive.
Non c'è timidezza, infatti, che non si accompagni a sensibilità e a insicurezza. In fondo, è quello che accade per gli adolescenti che, nel turbinio di emozioni nel passaggio da un'età improblematica (quella dell'infanzia) a una adulta, piena di responsabilità, si pongono mille domande sul senso della vita e creano degli ideali. Essi richiedono di essere ascoltati in un momento in cui
- trascuratezza,
- noncuranza e
- indifferenza
caratterizzano lo stile relazionale delle figure d'aiuto (gli adulti, i genitori, gli educatori).
Le "clinical skill"
La scuola, infatti, parla il linguaggio razionale degli insegnanti e nega la parte della comunicazione con intelligenza emotiva che è incentrata sull'ascolto (che, per inciso, è ciò di cui gli adolescenti hanno più concretamente bisogno). Poi le persone diventano adulte. E la società si colpevolizza per aver prodotto freddi burocrati che non possiedono educazione emotiva.
“In USA queste pratiche sono già più avanti”, riflette lo psichiatra. “Nel processo di accreditamento del medico esiste una prova clinica pratica di verifica delle sue 'clinical skill' in cui si testa anche la comunicazione medico-paziente. È parte dell'esame. C'è un attore che recita una parte e degli esaminatori valutano il feeeback in relazione a come questo attore percepisca la comunicazione. Stesso discorso per la specializzazione, che prevede non solo l'ottenimento ma anche esami periodici per mantenerla. Anche in questo contesto si considera la capacità di comunicazione col paziente".
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La parola in medicina: la speranza è un farmaco
« Se potete scegliere tra essere giusti ed essere gentili, siate gentili ». Con questa frase si chiude, in un crescendo emozionante, il film « Wonder ». Film in cui impariamo anche che « il più grande è colui il quale trascina i cuori grazie all’attrazione del proprio ». E che « la grandezza non sta nella forza ma nel corretto uso della forza ». Quanta forza c’è nelle nostre parole? Che uso improprio si fa del potere della parola nelle relazioni sbilanciate? Domandiamoci adesso: che cosa accade se, però, quella relazione sbilanciata vede coinvolti un medico e il suo paziente? Il giovane August, protagonista di Wonder, è un bambino con una grave malformazione facciale, che riesce a farsi apprezzare e amare per la grandezza del suo cuore che sbaraglia le vessazioni del bullo della scuola. Un grande insegnamento per chi non valuta appieno lo straripante potere dei piccoli gesti e della parola nella relazione, specie in quella clinica.
La speranza è un farmaco
«Le parole sono il mezzo principale per indurre aspettative positive, fiducia e speranza», afferma Fabrizio Benedetti (nella foto), neuroscienziato dell'Università di Torino, autore del libro "La speranza è un farmaco" (ed. Mondadori), uno tra i massimi esperti internazionali del placebo e della sua applicazione nella pratica clinica.
Serve una buona dose di sensibilità per approcciare gli altri. Per approcciare la loro unicità, invece, la sensibilità non basta più: serve una sovrasensibilità. Se addirittura siamo medici, servono sovrasensibilità e le parole giuste.
Perché uno sguardo benevolo, compassionevole, di conforto sono impagabili se accompagnati con le parole che danno speranza a chi è in attesa di un responso. E vede la propria vita (e quella dei propri cari) appesa alla ragnatela delle parole a cui aggrapparsi per avere un futuro da sognare.
Fragile è la speranza
La speranza è fragile, perché non vive del presente ma del futuro, di un futuro che non c’è, di una dipendenza da ciò che si vorrebbe ottenere ma che non rappresenta alcuna garanzia, alcuna certezza. Lo scrive Eugenio Borgna ne "Le parole che ci salvano". Quando speriamo, diventiamo fragili, vulnerabili, permeabili alle ferite, apparentemente inconsistenti. Ma la speranza ha una sua durata e anche una sua tenuta psicologica umana che sono in sostanziale contraddizione con la sua fragilità. E la friabilità della speranza si manifesta in ogni condizione depressiva che non sia malinconia-stato d’animo ma malinconia-malattia.
Quanta disperazione c’è, infatti, in chi vive la perdita della speranza a causa di una patologia? Che sia una patologia neurologica, una demenza di Alzheimer o una condizione di depressione, la fragilità che comporta la nuova condizione del corpo e dello spirito, di fatto, cancella definitivamente l’aspettativa per il futuro. Azzera, in altre parole, la speranza e accresce la condizione di fragilità che è insita con essa stessa. “Non ho niente a cui aggrapparmi”, afferma Maria Teresa una paziente dello psichiatra Borgna. “Non ho più nulla che mi dia un senso di vita. Mi sento disperata: almeno piangessi. Non riesco a piangere. Se potessi sperare nel suicidio, se potessi scegliere la mia morte, sopporterei meglio questa terribile sofferenza, perché ne conoscerei la fine. Invece, non ho neanche la speranza della morte, non ho neanche questa speranza. Non ho più alcuna speranza.”
La speranza, dunque, è fragile e si frantuma facilmente davanti agli eventi dolorosi della vita, dell’esistenza, a causa delle malattie. Serve, pertanto, imparare a riconoscerla, provare a proteggerla, perché proteggere la speranza è il modo migliore per continuare a essere in relazione con il mondo delle persone e delle cose. Che per definizione è fatto di parole e di piccoli gesti. E di essi si nutre.
[jpshare]La parole fanno
Le parole, dunque, fanno. La speranza che esse possono esprimere è, tuttavia, troppo spesso affidata a una gentilezza che va indossata prima del camice bianco. Ma che in natura si fa merce sempre più rara.
La prima cura, però, è il modo in cui il medico comunica con il suo paziente, dalla parola al tono, al gesto, impregnati di umanità e di gentilezza.
«Dal punto di vista neuroscientifico», ha dichiarato Benedetti in una recente intervista a Corriere.it, «oggi le parole sono passate da simboli astratti a vere e proprie potenti frecce che colpiscono gli stessi bersagli biochimici dei farmaci. Ed è proprio questo il concetto che oggi sta emergendo: parole e farmaci usano gli stessi meccanismi d'azione. L'effetto, peraltro, può essere misurato con sofisticate tecniche di bioimmaging. Tecniche che ci permettono di vedere cosa succede nel cervello del paziente quando interagisce con il proprio medico o, più in generale, con il proprio terapeuta».
Parole come lame affilate
« Dai genitori non erediti solo le case ma anche le malattie » e « non sarai eterno ». Queste mi sono state raccontate. Mentre « questa alla prossima dialisi fa un infartone e ci resta secca » l’ho sentito dire dal medico che aveva in cura mia madre, una settimana prima che se ne andasse per un’infezione che proprio lui non aveva capito.
Come non dimenticherò l’espressione impassibile del medico che venne in sala d’attesa ad annunciarci il decesso del nostro amico o l’« ehi » che fu urlato a me, assorto nel telefono, mentre ero in sala d’attesa al pronto soccorso della mia città.
Quanta gente indifesa e sguarnita si lascia umiliare dalla mancanza di tatto e si tiene la noncuranza delle parole di persone in camice bianco?
Già, le parole possono essere macigni. E oggi ne abbiamo le prove. Le fotografie del cervello in azione, come afferma Benedetti, dimostrano che le parole gentili di un medico, pronunciate nel modo migliore e nel momento opportuno scatenano una reazione neurale, e favoriscono comportamenti virtuosi da parte di persone che sono, così, incoraggiate ad affrontare le malattie con speranza.
Basta una parola. Purché sia quella giusta.
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Intervista per “Professioneinsegnante.it”: creatività ed emozioni a scuola
Un'intervista interessante quella che ho rilasciato alcune settimane fa all'amico Salvo Amato, nella foto con me, Insegnante catanese e fondatore del sito Professioneinsegnante.it. Tra i temi affrontati insieme, la centralità delle emozioni nei processi di apprendimento, la necessità di una formazione per gli insegnanti sull'argomento e l'approccio di Artedo, l'Ente che ho fondato e presiedo, accreditato al Miur per la formazione e l'aggiornamento del personale docente, che porta la creatività all'attenzione della scuola come strumento per sviluppare l'educazione emotiva in classe e l'apprendimento efficace. Continua a leggere
Adolescenti: i nuovi mali dell’anima si chiamano omologazione e nichilismo
Che gli adolescenti stiano mediamente male è un fatto notorio. Come lo è anche il fatto che essi non riescano a dare un nome al loro malessere. Ma la sofferenza dell’attuale generazione di adolescenti è tanto più allarmante quanto più è silenziosa e strisciante. Oggi questo serpeggiante, innominabile nodo allo stomaco, dovuto alla deprivazione emozionale che ne inibisce l'individuazione e l'isolamento, si chiama omologazione e nichilismo. Porta con sé depressione e disturbi di vario genere, con insorgenza sempre più precoce. Purtroppo, infatti, vale anche per i bambini e interessa un range d’età così ampio da arrivare ad abbracciare almeno un ventennio. Che fare? Pensare una riforma che introduca l'educazione emotiva a scuola.Continua a leggere
Comunicazione e Intelligenza Emotiva in ambito processuale
L'Intelligenza Emotiva è un tema che ormai interessa a tutti. Specialmente se abbinata con la comunicazione. Sorpreso ma non troppo, ricevo, così, l'invito a rilasciare un'intervista per il portale DLP, organo di comunicazione dello Studio Legale Tributario dell'Avv. Federico Pau di Milano, sui temi di argomentazione processuale, persuasione, influenza. Ecco quello che ho dichiarato (le domande sono in corsivo).
La rubrica
Interviste a chi la “persuasione” la insegna. Intervista a Stefano Centonze. All’interno della rubrica dedicata all’argomentazione processuale e alla persuasione in generale, prosegue il ciclo di interviste a studiosi della persuasione e della argomentazione, da chi la insegna nelle aule universitarie, a chi si prefigge di insegnarla a politici e top manager, e chi ne ha scritto bestseller. Oggi parliamo con il dott. Stefano Centonze.
Rubrica a cura dell’avv. Federico Pau.
Per l’appuntamento odierno, ho intervistato il Dott. Stefano Centonze, formatore ed editore.
La comunicazione e la persuasione
Ci racconti di Lei, dove opera, come si è formato e cosa l’ha portata a studiare temi legati alla comunicazione e alla persuasione.
Sono laureato in Scienze della Formazione e dell’Educazione e mi occupo di formazione ormai da oltre 15 anni. Inizialmente mi occupavo di formazione nel campo della comunicazione e del marketing, avendo avuto dei trascorsi nella consulenza finanziaria e nella gestione di reti, che coprivano l’intero territorio nazionale. Da quando ho intrapreso un percorso di formazione nella comunicazione non verbale mediata dai linguaggi dell’arte, dai linguaggi creativi, mi occupo prevalentemente di questo. Cioè, della comunicazione mediata dalle emozioni, che si esprimono attraverso dei linguaggi analogici, quindi appunto la creatività:
- musica,
- danza,
- arte,
- teatro.
Questa forma di comunicazione, oggi, è certamente quella che appare trasversale a tutti gli ambiti professionali, perché svela i codici attraverso i quali entrare in maniera efficace in relazione con gli altri.
Il discorso della persuasione è un discorso che io ho affrontato in passato, me ne sono occupato, ho scritto anche un testo sulla comunicazione efficace, persuasiva. Nel corso del tempo, ho preso un po' le distanze dagli aspetti tecnici della comunicazione e cioè, dagli atti che riguardano la struttura pratica dell’adottare dei codici espressivi che portino le altre persone ad accettare dei consigli.
Oggi, sono più dell’idea che si debba parlare di una comunicazione funzionale, basata sul rispetto e sulla fiducia, che è certamente il modo migliore per generare la persuasione.
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La formazione
Se dovesse formare una persona di modo tale da renderla più persuasiva, ma potesse trasmettere unicamente due concetti, tecniche o principi, e avesse un tempo “contenuto” a disposizione, quali sceglierebbe e come strutturerebbe l’attività formativa?
Se dovessi sintetizzare in due contenuti gli elementi caratterizzanti la comunicazione, direi senz’altro
- l’ascolto, prima di tutto, che è quello che oggi manca, mediamente, nella comunicazione, e
- la consapevolezza.
L'ascolto e la consapevolezza
L’ascolto, perché le persone sono sempre più innamorate della propria voce, e quando sono di fronte alle altre, preferiscono pensare a quello che diranno quando l’interlocutore avrà smesso di parlare, piuttosto che aprirsi serenamente a quello che abita al di là delle parole, nei messaggi che vengono inviati e cioè
- gli stati d’animo,
- o i valori, e quindi le emozioni che le persone trasmettono.
E d’altro canto, per poter arrivare a una sincera comunicazione, la consapevolezza è fondamentale. Avere dei mezzi per accedere alla consapevolezza di sé, dei vissuti e delle emozioni è, infatti, il modo migliore per generare empatia, cioè immedesimarsi negli altri, mettersi al posto degli altri e vedere quel che gli altri vedono di noi, attraverso la nostra corporeità e attraverso la nostra gestualità.
La comunicazione persuasiva
La comunicazione persuasiva, in questo senso, dal mio punto di vista, è caratterizzata da una coerenza di informazioni che mettono insieme le parole con
- il linguaggio non verbale e
- con quello paraverbale,
per inviare dei messaggi di ascolto e di accoglienza che tengono conto di bisogni che spesso le persone non esprimono, ma che si raccontano proprio attraverso i codici segreti che sono prevalentemente di pertinenza della comunicazione non verbale.
In questo senso, io mi occupo di comunicazione attraverso la creatività, proprio per aiutare le persone a scoprire come ognuno si esprime immediatamente. Analizzare, vedere, osservare il corpo in movimento che comunica, perché spesso, se le relazioni non funzionano, dipende proprio da una incoerenza tra il linguaggio parlato e quello che il corpo comunica.
Comunicazione ed emozioni
Il corpo comunica delle emozioni, dei vissuti, la parola dice delle altre cose. Allora, se è vero che il corpo non mente, se vogliamo parlare di una vera e propria comunicazione che funzioni, dovremmo dire che questa comunicazione dovrebbe essere coerente e tenere in debita considerazione come tutti i messaggi debbano essere funzionali all’obiettivo. Atteso che l’obiettivo sia di portare all’eccellenza le relazioni, in tutti i contesti.
Vale in azienda, vale nei contesti professionali, vale nel campo giuridico, vale nel campo sanitario, in quello medico, vale nel campo della scuola, nella relazione tra gli insegnanti e gli studenti, tra le famiglie e i docenti.
In ambito professionale, spesso si è anche chiamati ad ascoltare intimamente le ragioni che portano una persona a sedersi davanti al suo avvocato, al commercialista, ed esprimono dei bisogni che a volte non vengono pienamente recepiti e accolti. Allora, essere sereni di fronte a questo momento così importante di apertura verso gli altri richiede un’indagine dentro i codici espressivi, affinché questa analisi porti naturalmente ognuno a individuare i codici che appaiono più coerenti e funzionali a migliorare la qualità delle relazioni in vista dell’obiettivo desiderato.
[jpshare]Tre libri consigliati
Se dovesse consigliare 3 libri, oltre i suoi, a chi aspira a diventare più persuasivo, quali consiglierebbe?
- Se dovessi consigliare 3 libri, oltre i miei, direi che il primo libro da leggere con grande attenzione dovrebbe essere “Intelligenza emotiva” di Daniel Goleman.
- Un altro libro importantissimo che ho letto di recente è “La scoperta di sé” di Claudio Risé, che parla della necessità di incontrare quelle parti profonde che poi ci portano ad avere una maggiore consapevolezza delle zone in ombra, quelle che ci impediscono di entrare opportunamente in sintonia con noi stessi, prima ancora che con gli altri. Perché è impensabile offrirsi all’ascolto senza ascoltare opportunamente, appunto, se stessi.
- Il terzo libro, che riguarda l’uso della parola, è senz’altro il libro di Eugenio Borgna, uno psichiatra, che scrive questo testo prevalentemente per l’utilizzo in campo clinico, ma i cui precetti valgono universalmente. Il libro ha per titolo “Le parole che ci salvano” ed è un libro importantissimo che fa leva su come anche le parole, portatrici di energia, siano in grado di toccare la sensibilità, la fragilità degli altri. E questo fa un po' la quadra con quanto detto finora. L’ascolto da una parte, la consapevolezza e quindi la mediazione in tutte le interazioni, da parte delle emozioni, che sono al centro di ogni complesso processo di comunicazione e di mediazione.
Tre corsi consigliati
Se dovesse consigliare 3 corsi, oltre i suoi, a chi aspira a diventare più persuasivo, quali consiglierebbe?
Io direi che il primo corso che deve essere fatto da chiunque è certamente un corso sul benessere personale, un corso da svolgere in presenza, una pratica costante che porti prima di tutto le persone a star bene. Le persone che comunicano meglio sono le persone che posseggono un grande autocontrollo e una grande consapevolezza di sé. Per cui, il primo momento, è certamente incontrare se stessi e star bene; se si sta bene diventa molto più facile l’interazione con gli altri.
Consiglio certamente dei corsi che portano alla risoluzione della complessità attraverso i mezzi creativi, il cosiddetto Problem Solving Creativo, ma anche uno sulla negoziazione, che affronta il tema della comunicazione (la PNL o l’Analisi Transazionale) e sull’arte di parlare in pubblico. Sono tutti corsi che mettono insieme
- emozioni,
- creatività e
- modalità (anche tecniche, in alcuni casi) interattive, relazionali e comunicative.
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Se qualcuno dei lettori fosse interessato a sapere qualcosa in più su di lei e sui suoi corsi, che parole dovrebbe digitare su google per contattarla?
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Continua a leggereVi presento il mio libro “Comunicare con Intelligenza Emotiva”
Per scrivere un libro in cui raccontare quello che ho potuto notare sul modo di comunicare delle persone, in anni di esperienza nella relazioni e nella formazione, ho scelto di non riferirmi a modelli. Ho ritenuto che mi bastasse l'osservazione dei comportamenti della gente che ho incontrato sul mio cammino. Da curioso esploratore di umane faccende, il primo fenomeno da osservare sono io stesso. Per questo, ho intrapreso un viaggio lungo una serie di aneddoti che raccontano la visione che oggi ho di me stesso e del mondo mi circonda. E se potrò contribuire con una sola parola a renderlo migliore, allora, la troverete in questo libro. Mia moglie, ancora oggi, quando vuole ferirmi, mi accusa di dovermi impegnare di più con la pratica di quanto insegno in teoria. Prima di fingermi morto (come accade a molti di voi quando siete messi alle corde), seraficamente affermo: “Spero, allora, che le persone facciano quello che dico e non quello che faccio. E che lo facciano meglio di me”. Comunicare con Intelligenza Emotiva, ovvero il libro che Daniel Goleman ha dimenticato di scrivere. Un giorno l'ho detto per scherzo ma, se ci penso, è proprio così. Spero che piacerà a voi leggerlo come è piaciuto a me scriverlo.
Il contadino e lo spiritello della casa
In una storia della tradizione popolare del Salento del dopoguerra, si racconta di un contadino che, durante le notti insonni, veniva tormentato dall’Uru, lo spiritello della casa. Un’ombra burlona che amava giocare e mettere alla prova la gente. Il suo divertimento era spaventare chi dubitava della sua esistenza, mentre esaudiva i desideri delle persone che accettavano di dialogarci.
Così, l’uomo, che viveva da sempre da solo, esausto e atterrito dal vedersi nel sonno quell’ombra opprimente sulla pancia, un bel giorno decise di cambiare casa.
Trasferiti i suoi poveri arredi al nuovo indirizzo, sul far della sera fu visto dal vicino uscire per andar via per sempre. Teneva in mano solo un paniere, di quelli che venivano usati per la vendemmia, con le ultime cose, coperte alla vista da una piccola tovaglia a quadretti rossi.
“Così te ne vai davvero?” Chiese il vicino, avvicinandosi per salutarlo.
“Eh, sì. Cambio casa e vita.” Rispose il contadino. “Non lo sopporto più”, disse, riferendosi all’Uru.
Così, lo spiritello, sentendosi chiamato in causa, spostò leggermente la tovaglietta e fece capolino dal paniere: “Sì, sì… Ce ne andiamo da qui”, replicò beffardo.
[jpshare]Comunicare con l'ombra
La storia, con la solita saggezza della cultura popolare, insegna che non si può fuggire dalle proprie ombre. E che quelle ombre fanno parte di noi. Bisogna, allora, imparare a riconoscerle e integrarle, perché da qui dipende il benessere e l’armonia della nostra vita e delle nostre relazioni.
Poiché, dunque, quando comunichiamo, condividiamo noi stessi con gli altri, allo scambio concorrono le parole, i gesti, le emozioni, i valori, i talenti, le sfide, le difficoltà, i conflitti, i desideri che solo in parte appartengono alla superficie illuminata della nostra esistenza. Molto altro che trasmettiamo, spesso senza averne consapevolezza, viaggia lungo una via più bassa che è rappresentazione ed espressione della zona buia della personalità. Ma arriva a destinazione con la dirompenza delle onde di un mare in tempesta.
L’incontro con il mondo sommerso, abitato da emozioni e vissuti, è, allora, salvifico per sé e per le relazioni. Creatività e Intelligenza Emotiva spiegano come questo incontro possa avvenire e perché.
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