Se provate a digitare su Google “la sindrome del piccolo Einstein”, molto probabilmente non troverete nulla. Al più, dei riferimenti alla sindrome di Einstein, riferita all’autismo ad alto funzionamento, o alla sindrome del piccolo professore. Credo di aver trovato dei riferimenti circostanziati a quello che accade nelle famiglie quando arrivano i figli in Daniele Novara, pedagogista e autore di diversi testi in materia di educazione. Leggendolo, ho condiviso appieno il suo punto di vista che in questo articolo condivido con i miei lettori.
La sindrome del piccolo Einstein
Possiamo, pertanto, definire la cosiddetta sindrome del piccolo Einstein come la deriva patologica del comportamento eccessivamente accuditivo della coppia genitoriale nei confronti del neonato, venerato come la persona in grado di cambiare le sorti del mondo.
L’eccessivo maternage, che non riguarda solo la madre ma che coinvolge anche il padre che rinuncia ad esercitare il suo ruolo autoritario in famiglia, permette al bambino di crescere protetto dalla coppia per uno strano meccanismo perverso di compensazione per una serie di mancanze.
- Mancanza di comunicazione;
- assenza di dialogo in famiglia;
- difficoltà a parlare di emozioni e sentimenti;
- poca disponibilità all’ascolto.
Il fatto é che, dopo essere cresciuti in questo clima educativo, quando questi ragazzi si trovano nella situazione di dover affrontare il mondo, all’improvviso scoprono di non avere nulla di speciale, che non c’è più la mamma a sostenerli e che la vita reale è molto diversa da come essi l’avevano immaginata. Così, sprofondano nella depressione o reagiscono rabbiosamente. Argomento che abbiamo già visto e affrontato parlando di Sinek (approfondimenti ai link di questo paragrafo).
In difficoltà con le emozioni
Che i ragazzi siano arrabbiati non lo scopriamo adesso. “Piuttosto”, afferma Novara, “è un dato di fatto.” Il motivo è che sono sempre più in difficoltà con le emozioni. Per assurdo (ma neanche troppo), i ragazzi di oggi sono più intelligenti di quelli di ieri. Sia perché, ogni dieci anni, il quoziente d’intelligenza (il QI) cresce di tre punti, sia per un fatto evolutivo. “Poiché nelle mani confluiscono il 90% dei recettori neurologici“, spiega Novara, “quelli che fanno fare esperienza nel mondo, da quando le mamme non fasciano più le mani ai neonati, l’evoluzione procede a passi più spediti.”
Se a questo aggiungiamo gli effetti di videogiochi e moderne tecnologie, di cui non disponevano i cinquantenni di oggi, strumenti grazie ai quali il bambino sviluppa abilità cognitive prima impensabili, appare più chiaro perché le nuove generazioni siano più intelligenti di quelle precedenti ma sempre più sole, depresse ed emozionalmente inibite.
Bambinoni creduloni
Nonostante tutto ciò, tuttavia, la crescita dell’intelligenza non segue quella della maturità emotiva. Così, “essi tardano a maturare, credono a Babbo Natale fino a dieci anni, crescono bugiardi, nascondendo gli insuccessi ai genitori, e mantengono il pensiero magico come Harry Potter. Pensiero magico che è funzionale alla loro onnipotenza, di cui il “no” è una manifestazione,” continua Novara.
È normale che lo facciano, è normale che siano iperattivi, “motori”; meno normale è che credano a Babbo Natale così a lungo. I bambini, dunque, non sbagliano: devono solo imparare. Fanno, cioè, il loro “lavoro” di bambini.
Ma ognuno, per imparare, deve percorrere la strada dell’errore. Ma, se associato ai figli, sembra che l’errore non rientri negli schemi mentali dei genitori, convinti di aver messo al mondo dei piccoli Einstein. Allora, li proteggono, li venerano e, così facendo, li rovinano.
E’ opportuno, invece, che i ragazzi facciano degli errori e che vengano compresi e accolti per quegli errori. In fondo, è così che imparano. Non solo: più sbagliano, più imparano. Ecco l’unica equazione possibile. Ma la famiglia è capace di ammettere la fallibilità e la fragilità dei figli? O preferisce nascondersi dietro presunte competenze (che i figli non posseggono) per deresponsabilizzarsi dal suo ruolo?
I nuovi mostri
Che cosa diventano da adulti questi ragazzi? Semplicemente nuovi mostri, tristi, chiusi, inadeguati, impacciati e violenti, che non hanno la più pallida idea di come cavarsela nel mondo. Dovremmo, infatti, tenere più spesso a mente che i bambini non si formano da soli. Siamo noi a formarli. E se crescono da bamboccioni viziati che chissà che cosa diventeranno… beh, è demerito di noi genitori.
Genitori, va detto, spesso semplicemente fragili davanti alle debolezze dei figli da cui cercano, invano, di proteggerli. Ma fino a un certo punto. Così, da grandi, quando devono dimostrarsi all’altezza delle aspettative di cui le famiglie li investono durante l’infanzia e l’adolescenza, scoprono di non sapere affatto come cavarsela: senza il sostegno incondizionato della famiglia e costretti a confrontarsi con il mondo del lavoro, in quel preciso istante questi ragazzi si scoprono orfani e emotivamente incontinenti.
E sviluppano comportamenti aggressivi e conflittuali.
Il resto è nelle pagine di cronaca a cui la nostra società ci abitua ad assistere, giorno dopo giorno.
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