Una storia che parla di creatività, autostima e fiducia. Una storia autobiografica che parla di divieti e di errori inammissibili per decreto familiare. Errori che poi insegnano a crescere e a credere in se stessi, nei propri limiti e nelle potenzialità. Un racconto che non è una fiaba, almeno, non nel senso stretto, che ho scelto come introduzione al mio libro di fiabe autobiografiche “I desideri che cadono nel mare – Fiabe per crescere, storie per imparare a conoscersi” (Stefano Centonze, Ed. Circolo Virtuoso 2018). Ma ho trovato illuminante il racconto della vita di Romina e del suo rapporto con la creatività che le ha permesso un cambiamento e di diventare la persona che oggi è. Una parabola, una testimonianza reale che parla del peso delle aspettative e dell’ansia di prestazione generata dai genitori che è la migliore introduzione ai mondi fantastici e sconosciuti che ci accingiamo ad esplorare.
La creatività
La creatività è il motore che muove l’universo, è il fondamento stesso dell’essere e del divenire. Eppure, nella maggior parte delle persone, alberga, anche negli angoli più reconditi dell’inconscio, la convinzione che il processo creativo sia qualcosa di lontano ed estraneo, qualcosa che appartiene a Dio che, non a caso, è definito “Creatore”, e a pochi eletti chiamati ossequiosamente “artisti”: una élite che spesso appare spocchiosa e inavvicinabile, fisicamente e umanamente, distante dalla realtà degli eterni rassegnati fruitori/ammiratori delle creazioni altrui.
Da quando mi sono avvicinata al disegno da autodidatta mi è capitato, molto spesso, che le persone ammirassero i miei lavori con commenti che rivelavano la totale mancanza di fiducia nelle loro capacità creative: «beata te… ma come fai? Io non so tenere una matita in mano!». Di solito rispondo che il disegno e la pittura sono solo uno degli infiniti modi in cui la creatività può esprimersi, ma la risposta che mi aspetto giunge puntuale e lapidaria: «oh, no… io sono davvero, ma davvero negato per qualsiasi cosa… non sono per niente creativo!».
Io, dal canto mio, non credo di aver mai pensato davvero a me stessa come una persona povera di creatività: mi è sempre piaciuto disegnare, anche se sono riuscita ad ottenere miglioramenti tecnici solo con uno studio costante e metodico; da bambina scrivevo poesie e i miei temi venivano sventolati in giro per tutta la scuola dalla mia orgogliosissima maestra. Quindi, ero anche abituata ad essere apprezzata e lodata per le mie abilità creative…
Eppure… eppure…
Dev’essere accaduto qualcosa, a un certo punto, perché non ricordo quando e come, e non so dire se, ci sia stato un fattore o un evento scatenante, ma so che, verso i quindici anni, ho smesso di creare per me stessa. Improvvisamente, i miei disegni non erano più degni di considerazione e ciò che avevo da dire non era poi così interessante e profondo da dover essere necessariamente messo per iscritto. Continuavo a scrivere, quando era espressamente richiesto dalle attività didattiche della mia scuola, e a prendere buoni voti. Ma sentivo che la fiamma della creatività non ardeva più vivace e brillante come una volta.
Nel frattempo, il senso di inadeguatezza, in tutti i campi della mia vita, prendeva il sopravvento e tutti, in tutto, erano più bravi, più talentuosi e più preparati di me. Le mie scelte accompagnavano e sostenevano queste convinzioni, trascinandomi sempre più in basso, portandomi ad abbandonare gli studi e a mettere in stand by la mia formazione per molti anni. Parallelamente, i disturbi alimentari, che mi trascinavo dalla primissima infanzia in modo latente, emersero e si manifestarono con tutte le conseguenze connesse, urlando al mondo il mio disagio.
Vietato sbagliare
Un esito del tutto immotivato, si direbbe, dal momento che i miei talenti erano stati riconosciuti e lodati, fin dalla loro comparsa. In effetti, sono molto grata alla mia maestra della scuola primaria. Era una brava maestra e ha fatto del suo meglio. Ma, se torno con la mente a quegli anni, agli anni della mia infanzia e della mia adolescenza, risento, come un macigno sul cuore, il peso delle aspettative dei miei genitori, l’ansia da prestazione che mi veniva trasmessa ogni volta che dovevo sostenere anche la più piccola prova, l’angoscia che l’accompagnava, al pensiero che la mia mamma non mi avrebbe voluto più bene, se non fossi stata all’altezza di ogni situazione.
E se me lo diceva sgranando gli occhi in quel modo, probabilmente, sarebbe accaduto qualcosa di davvero grave… Probabilmente sarebbe crollata la scuola per colpa mia… Sarebbero morti tutti? Sarei morta giovane e sarei finita all’inferno? Non sapevo perché era così importante che io non ne sbagliassi una… ma non dovevo sbagliare! Non potevo sbagliare! E questo era chiaro.
Ricordo di aver provato odio per me stessa e un profondo senso di vergogna il giorno in cui mio padre lodò, in modo insolitamente entusiasta (con me non l’aveva mai fatto), il disegno di una mia amichetta, sottolineando il fatto che era più brava di me. Passai mesi e mesi a disegnare quel benedetto pesciolino nello stesso modo in cui lo aveva disegnato lei, chiedendomi che cosa avesse di tanto speciale e mostrandolo continuamente a mio padre: «guarda, guarda, è uguale a quello di Francesca!»
Taci, giudice interiore!
Ci sono dei momenti in cui la mente s’acquieta e il severo giudice interiore finalmente tace. Non sempre ma sempre più spesso. Ad esempio, quando partecipo ad un laboratorio di arteterapia e sono talmente assorta nel processo creativo da dimenticare di chiedermi se lo sto facendo bene o male.
Le prime volte era davvero angosciante: sbirciavo continuamente i prodotti artistici dei miei compagni di corso per assicurarmi di andare nella loro stessa direzione, di non fare nulla di strano, sciocco o inopportuno… e, se ne avevo il tempo, cercavo di correggere e di abbellire il più possibile.
Per smettere di trattarmi in questo modo, ho dovuto riflettere a lungo sul pericolo concreto di trascinarmi questo atteggiamento nella vita e nella professione di arteterapeuta, applicando quell’atteggiamento rigido e giudicante anche ai miei assistiti. Naturalmente, questa è l’ultima cosa che vorrei: ho scelto questa formazione umana e professionale, anche per “correggere il tiro”, per modificare l’impronta che attraverso di me sarà data alle future generazioni, per essere creatura che crea e infonde amore attraverso l’atto creativo.
È per questo che siamo al mondo, non per competere e rivaleggiare, ma perché «ciascuno canti il proprio canto», come dice Osho.
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