Dove metti la virgola nella frase “Se l’uomo fosse sicuro del valore che ha la donna andrebbe a quattro zampe alla sua ricerca”? La frase, a cui in questa forma non è possibile attribuire un senso, è di Julio Cortàzar, scrittore argentino naturalizzato francese. Ed è senza virgola apposta. Sta al lettore scegliere dove metterla. Ma, una volta deciso dove inserirla, si ottiene un senso che è l’esatto opposto di quello che si ottiene spostandola. Vediamo.
Dove metti la virgola?
Per sapere dove metti la virgola, basta leggere la frase ad alta voce. La virgola cade nel punto esatto in cui fai pausa. Così la frase prende uno dei due possibili sensi:
- Se la frase diventa “Se l’uomo fosse sicuro del valore che ha, la donna andrebbe a quattro zampe alla sua ricerca” (con la virgola dopo il verbo ha), il senso è chiaramente maschilista. E’ l’uomo che è sopra la donna e la donna dovrebbe mettersi a quattro zampe per andare alla ricerca dell’uomo.
- Viceversa, se diventa “Se l’uomo fosse sicuro del valore che ha la donna, andrebbe a quattro zampe alla sua ricerca” (con la virgola dopo il sostantivo donna), il senso è chiaramente femminista. E’ la donna che è sopra all’uomo e l’uomo dovrebbe mettersi a quattro zampe per andare alla ricerca della donna.
Senza conoscere questo efficace giochetto linguistico, il punto cui viene collocata la virgola spiega la visione che una persona ha del mondo. Accade perché anche la parola è il prodotto di un processo inconscio, attraverso cui emergono
- cultura,
- emozioni
- ed esperienze
che strutturano i valori.
L’inconscio cognitivo
La parola, dunque, che sia scritta o parlata, richiama alla responsabilità del suo uso. Perché la parola è energia e, con la stessa facilità, può esaltare o far sprofondare nel baratro della solitudine le persone che la ascoltano. Per questo occorre aver consapevolezza della sua forza e del suo potere.
E’ questo il processo, teorizzato nel 1987 dallo psicologo cognitivista Kihlstrom, con cui, attraverso la parola vengono richiamate informazioni, che hanno origine dall’autobiografia, depositate nell’inconscio cognitivo che la mente cosciente può riutilizzare. Senza, tuttavia, che a chi pronuncia quella parola sia chiaro perché e, soprattutto, come quelle informazioni siano state processate in quel dato modo.
La parola: processo o risultato?
Un esempio chiarirà il concetto. Se dico, scrivo o uso una parola invece di un’altra, la mia mente riporta a galla informazioni di cui vedo il risultato, senza indagare sul processo, sul com’è che questo accade. In altre parole, è come osservare una mela e riportare la sua rappresentazione al livello della coscienza, senza che sia necessario chiedersi che giri abbia fatto la mente per recuperare quell’immagine. Cioè, quell’immagine, quella forma deve essere necessariamente già nota alla mente cosciente perché possa essere richiamata alla memoria, indipendentemente dal fatto che a me sia chiaro il processo (che resta incosciente) attraverso cui quel ricordo riaffiora”.
Una visione meno selvaggia e impervia delle buie e segrete stanze dell’inconscio dinamico (o freudiano) in cui ricordi ed emozioni rimosse fanno il lavoro sporco per conto della mente.
Una cosa sembra, dunque, mettere d’accordo la psicologia, a tutte le latitudini, e le neuroscienze: l’idea che la nostra vita si svolga sotto i raggi del sole della coscienza è solo una pia illusione. E le parole sono un momento di quella vita silente che richiamano gli esperti del campo verbale all’esercizio di consapevolezza e ad un responsabile uso di un mezzo così potente.
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