L’incontro con la fragilità ha mille forme. Ci si imbatte continuamente nella fragilità. Nelle corsie degli ospedali, nelle comunità, negli ambulatori medici. L’incontro con questa fragilità è segnato dalla paura. Chi è vulnerabile e fragile ha sempre paura, mentre attende di conoscere il proprio destino, perché sa che qualcosa si è rotta o può rompersi da un momento all’altro. Ma l’incontro con la fragilità è più comune di quanto non si immagini. Per strada, al mercato, nelle stazioni delle grandi città, persone in stato di bisogno reclamano il nostro aiuto, la nostra attenzione. Come si interagisce con questa condizione di precariertà che è sempre davanti ai nostri occhi e che, in fondo, ci trasforma? Ecco un passaggio della mia conferenza dal titolo Costruirsi persona – le parole che ci salvano.
L’incontro con la fragilità
Nel corso della nostra vita, siamo accompagnati da esperienze che ci mettono in contatto con noi stessi. Una delle più intense è l’incontro con la fragilità. Più spesso quella altrui della nostra. Entrambe, tuttavia, ci cambiano. Queste esperienze ci aiutano a prendere conoscenza di noi e, soprattutto, di entrare in risonanza con le nostre emozioni. La nostra vita, dunque, è costellata da esperienze emotivamente significative, come momenti di tristezza, di gioia, ma anche da sentimenti forti come
- amore,
- amicizia,
- solitudine,
- abbandono,
- tenerezza.
Tutte dimensioni che esprimono, a vario livello, una fragilità con cui diventa importante entrare in risonanza. Perché la fragilità è il nostro destino.
In che modo, allora, si comunica con ciascuna esperienza emotiva?
Il ruolo delle emozioni
Le emozioni sono le esperienze che ci mettono in contatto con la condizione umana nella sua interezza e profondità. Alle emozioni basta uno sguardo per farci scendere nella profondità del nostro cuore e riaccendere le significative esperienze che abitano nella nostra interiorità.
La domanda allora diventa in che modo entriamo in comunicazione, in relazione, in risonanza con noi stessi e con gli altri? In che modo, ancora, questa esperienza ci plasma intorno all’incontro con l’altrui sensibilità, ai bisogni degli altri che troppo spesso cadono nell’oblio della disattenzione e dell’indifferenza?
L’incontro come condivisione
Se entrare in relazione vuol dire condividere, allora, non esiste alcuna forma di incontro in cui non ci sia una dimensione di fusione in un “noi” di entità apparentemente separate, come l’“io” e il “tu”. Neppure l’incrocio di sguardi con l’altrui precarietà. Basta uno scambio casuale, per strada, quello di un attimo, e nasce un “noi” che avrà per sempre un riverbero nella vita inconscia di ognuno.
Quello che cambia è fino a che punto si intenda ignorare l’incontro, invece di decidere di lasciar vivere quell’esperienza, portarla fuori, fino all’azione, ammetterla come spazio intimo di risonanza, per accogliere la fragilità come esperienza di condivisione.
Nello scambio, anche in quello verbale tra persone che stentano a comprendersi, l’io e il tu si incontrano, infatti, in una dimensione differente: da questo incontro si esce sempre cambiati, se si sceglie di non voltarsi dall’altra parte. Questo esercizio di attenzione e di cura aiuta a rifondarsi come persone, a scegliere di dire o tacere, per protezione e rispetto verso l’altrui delicatezza.
Accade così che gli stati d’animo che proviamo davanti agli altri (paura, angoscia, insicurezza, inquietudine) ci fanno modificare il modo in cui incontriamo il mondo e, in fondo, meritare il modo in cui il mondo incontra noi.
Elogio della gentilezza
Il gesto di “andare verso”, così, non è più “qualcosa che si fa” ma “qualcosa che si è”. E’ la tecnica che fa posto posto alla sostanza, la teoria che cede il passo alla pratica del vivere insieme agli altri. E con questo sentire che ci si educa ad essere gentili.
Questo per me racconta l’immagine di copertina che ho scelto. E’ lo scatto in cui un’amabile ragazzina, in abiti da collegiale alto borghese, si ferma a condividere la sua acqua con due clochard.
In quanti lo fanno ancora? In quanti lo farebbero, senza possedere quello spazio di risonanza emotiva che fa essere migliori e più comprensivi con il mondo? Quante persone sanno davvero prendersi cura del prossimo, quando vi condividano anche un solo istante d’esistenza? Insomma, quanto ci costa oggi un atto di gentilezza verso il prossimo, se non abbiamo nulla da guadagnarci?
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