Nel suo « Discorso sul metodo », Cartesio afferma che il pensiero è qualsiasi attività della mente intesa come attività cosciente. Il pensiero, secondo questa visione metafisica, è la mente stessa. Per pensiero, tuttavia, egli non intende solo l’attività cognitiva ma anche le emozioni, i sentimenti e la volontà. Ma ad una condizione: che ce ne sia la consapevolezza. Ogni attività consapevole, dunque, è pensiero.
Sono trascorsi quattro secoli e qualche passo in avanti le neuroscienze lo hanno fatto. Ma l’idea che emozioni e ragione interagiscano, esattamente come ipotizzato dal filosofo francese del primo Illuminismo, resiste. Anzi, per l’esattezza, è stata rivalutata proprio di recente, dopo che per lungo tempo le prime sono state considerate alla stregua delle sorelle meno nobili della ragione.
Emozioni monetizzabili
Cartesio affermava che la “ragione” fosse collocata nel cervello, mentre lo “spirito” nel corpo. E che l’incontro tra la cognizione e le emozioni avvenisse nella ghiandola pineale. Oggi, con le moderne tecniche d’indagine che permettono di studiare il cervello in azione, anche quando si emoziona, sappiamo che le emozioni nascono al livello dei circuiti limbici, nel cosiddetto cervello intermedio. Le neuroscienze possono, così, spiegare in che modo avvenga il controllo della sfera razionale su quella emozionale.
Se vogliamo, il mondo delle emozioni è, di fatto, diventato campo d’indagine delle neuroscienze da quando la psicologia cognitiva ha rivalutato il loro ruolo nelle scelte delle persone. Quando, per l’esattezza, sul finire del secolo scorso, la psicologia ha potuto dimostrare che le emozioni sono « monetizzabili », nel senso che governano le leggi del consumo e degli acquisti, allora l’interesse diffuso verso l’argomento ha, di diritto, spostato la trattazione dell’argomento nei salotti buoni delle neuroscienze.
Campo emotivo e studio scientifico
Ma non è stato sempre così. Il campo emotivo, fino ad allora, era considerato inadatto ad uno studio scientifico. Poi, gli studiosi iniziarono a comprendere che le emozioni esercitavano una forte influenza sui processi cognitivi e che questo accadeva con maggiore intensità, man mano che i meccanismi della ragione si arricchivano stimolati da quelli emotivi. In seguito, fu Antonio Damasio, della University Southern of California, ad accertare che la componente emotiva influenza il comportamento, specialmente in ambito decisionale. Nasce, così, la Scienza della Decisione.
L’indagine inizia osservando il cervello, in soggetti sia ammalati che sani, con la tecnica del neuroimaging che, di fatto, ha permesso di tracciare le mappe neurali, di individuarle e isolare le reti cerebrali responsabili di ogni emozione distinta.
Come si formano le emozioni
I processi della formazione di un’emozione sono principalmente di tre tipi:
- espressione,
- associazione dell’esperienza soggettiva e
- atteggiamento assunto nel contesto.
Le rappresentazioni mentali che ne scaturiscono diventano, in tal modo, sempre più complesse, per via delle moltissime variabili in campo.
Emozione e cognizione, d’altra parte, si attivano in aree cerebrali distinte ma sono destinate ad incontrarsi al livello della corteccia pre-frontale
- di sinistra, dove ha sede l’attenzione che permette la presa di consapevolezza di quel vissuto emozionale e la conseguente elaborazione sul piano razionale, o
- di destra, dove, restando nella sede emozionale, è più facile andare incontro a forme di sequestro emotivo, perchè manca la fase di presa di coscienza.
Osservare le emozioni in azione
Per esplorare il meccanismo in base al quale il cervello sviluppa un’emozione, il primo step del neuroimaging è l’ « attivazione emotiva » a
- induzione esterna (attivare un’emozione attraverso input visivi, come mostrare foto di volti allegri o tristi, o uditivi, facendo ascoltare pianti, risate o racconti carichi di emotività) o a
- induzione interna (la stimolazione avviene per rievocazioni di ricordi legati a eventi personali emozionanti).
Il secondo livello d’indagine è la risposta emotiva del soggetto. L’osservazione del potenziamento di attività elettrica di aree specifiche del cervello, in base al tipo di stimolo, permette di individuare le stazioni coinvolte e deputate alla comparsa di ogni singola emozione. Ciascuna, infatti, nasce nell’interazione di più zone distinte che coinvolgono principalmente il cervello intermedio, dove hanno sede i circuiti limbici, con « efferenze » verso altre aree (verso il cervello antico o quello recente, la neocorteccia). Non esistono, dunque, aree adibite a produrre emozioni positive o negative in senso stretto. O, almeno, oggi si sa che è così, una volta tramontata la « teoria localizzazionista » con le recenti scoperte.
La sede dell’intelligenza emotiva
Solo un’unica struttura, collocata nella zona che va dalla corteccia pre-frontale ai lobi frontali, si attiva sempre, indipendentemente dall’emozione e dal metodo di induzione. Ecco quella che Goleman individua come la sede dell’intelligenza emotiva, essenziale durante la valutazione cognitiva dell’evoluzione emotiva (detta metacognizione). L’area frontale, in pratica, funge da filtro cognitivo che aiuta a modulare un’emozione con obiettività.
Se, per esempio, ci atterrisce la vista di un animale feroce ma ci rassicura vederlo in catene (il che ci tranquillizza, dopo un momento di spavento iniziale), è perché viene attivata la metacognizione che ci fa riconsiderare l’emozione. In tal modo, la paura non si attiva.
In altre parole, il nostro cervello seleziona automaticamente (cioè, senza informarci) gli stimoli emotivi, come dimostrano gli studi di Amanda Holmes e Martin Heimer, neuroscienziati dell’Università di Roehampton.
Non solo. Ricerche affini, come quelle condotte da Jonas Olofsson dell’Università di Umea (Svezia), spiegano la prevalenza di attenzione del nostro cervello verso gli stimoli negativi più che per quelli positivi (il che spiegherebbe la prevalenza di emozioni negative – cinque contro una – nell’uomo). Secondo questa lettura, l’emozione negativa catturerebbe rapidamente l’attenzione per scongiurare i pericoli, assecondando l’atavico istinto di sopravvivenza (che ha sede nel cervello rettiliano), ulteriormente rinforzando l’idea dei nostri tre cervelli in continua interazione tra loro.
Coscienza emotiva soggettiva
L’intensità con cui avvertiamo le emozioni e la capacità di attribuirle agli altri, la personalizzazione, dunque, del modo di percepire e vivere le emozioni, compongono la coscienza emotiva soggettiva. Allo studio di questa dimensione della vita emotiva sono dedicate le ricerche dello psicologo americano Richard Lane. Attraverso gli strumenti di neuroimaging, applicato a volontari esposti a frame di filmati dal forte impatto emotivo, lo studioso rileva che l’attenzione ai particolari delle scene attiva la corteccia parieto-occipitale (area adibita all’attenzione spaziale), mentre la concentrazione sull’emozione personale la corteccia cingolata anteriore. Quindi, quest’area, come confermato anche dagli studi di Neil MacRae, consente di avere piena coscienza delle emozioni.
Poiché, tuttavia, alcune di esse, come la vergogna e il suo contrario, la fierezza, si palesano solo in relazione agli altri, deve necessariamente entrare in gioco l’esperienza soggettiva.
Implementare le risorse emotive
In merito agli studi di compatibilità degli aspetti neurobiologici con l’esperienza emotiva personale, risultano fondamentali gli studi di Moira Mikolajczak dell’Università di Lovanio, di Turhan Canli, psicologo e neuroscienziato della Stony Brook University, negli Stati Uniti e di Klaus Peter Lesch, psichiatra dell’Università di Wurzburg, in Germania.
In diversi momenti (ma con convergenza di evidenze), essi hanno accertato, nei soggetti attenzionati, la presenza di un gene (il 5-HTT) responsabile della modulazione nei processi di produzione della serotonina ma con due diverse varianti di alleli: una corta e una lunga. Esattamente come per il gene COMT, studiato dall’equipe della Mikolajczak, deputato alla degenerazione della dopamina. I portatori di geni composti da alleli della variante corta risultavano più sensibili allo stress (e, quindi, ad essi sarebbero importabili i disordini emotivi) di quelli della variante lunga. Ma, in ambienti emotivamente ricchi e stimolanti, tale deficit appare mitigato (fino a scomparire) grazie all’esperienza personale.
Per questo, l’intelligenza emotiva può essere appresa e sviluppata con la pratica intenzionale che bypassa le limitazioni apparentemente imposte dal corredo genetico.
Fonte
Tratto dall’art. “Le emozioni nel cervello” di Sylvie Berthoz, ricercatrice presso l’Unità INSERM e psicologa del sevizio di psichiatria per adolescenti e giovani adulti dell’Istituto Montsouris. Dal mensile “Mente & Cervello” di aprile 2010.
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