Nel suo libro “Intelligenza Emotiva”, Goleman riferisce di un insolito gioco di ruoli che la WT Grant Foundation ideò negli anni novanta del secolo scorso tra i quindici alcuni di una quinta elementare. Nessun banco, né sedie: i ragazzi, seduti in cerchio sul pavimento con le gambe incrociate nello stile dei pellirosse, sono alle prese con un’ora di lezione sulla Scienza del sé. Quando l’insegnante li chiama per nome, i ragazzi non rispondono con l’inespressivo “presente”, in uso abitualmente nelle scuole, ma con un numero che indica il livello dello stato d’animo, dove « uno » significa sentirsi giù di corda, mentre « dieci » pieni di energia.
La scienza del sé o intelligenza emotiva
Oggetto della Scienza del sé sono i sentimenti: i propri e quelli che scaturiscono dai rapporti con gli altri. L’argomento, per sua stessa natura, richiede che gli insegnanti si concentrino sul tessuto emozionale della vita degli studenti, tema spesso ignorato in tante scuole. La strategia principale consiste nell’utilizzare come argomento del giorno le tensioni e, talvolta, anche i traumi dei ragazzi. L’apprendimento non avviene, dunque, a prescindere dai loro sentimenti.
In quell’ora, che potrebbe essere definita come l’ora curricolare d’intelligenza emotiva in classe, gli insegnanti parlano di questioni concrete (ma con un alfabeto emotivo):
- del dolore di sentirsi esclusi,
- dell’invidia,
- dei contrasti, dettati dalla rabbia, che potrebbero sfociare in una zuffa nel cortile della scuola.
L’educazione morale di Dewey
Non a caso il filosofo John Dewey riteneva che un’educazione morale fosse massimamente efficace quando le lezioni venivano impartite in presenza di accadimenti reali. E non in maniera astratta. Ecco, è proprio questo il modo d’intendere una lezione che tenga conto del bisogno di alfabetizzazione emozionale.
Se, dunque, riteniamo vero che, ai fini dell’apprendimento, l’alfabetizzazione emotiva è importante almeno quanto le materie ritenute fondamentali a scuola, come la matematica e la lettura, va rinegoziato, anche a tanti anni di distanza dell’opera di Goleman, l’obiettivo di elevare il livello di competenza sociale ed emozionale nei ragazzi come parte della loro istruzione regolare.
Se un’idea, un precetto, un insegnamento, un modello, un consiglio vale, non ha tempo. Piuttosto, chiariamoci perché non ci abbiamo pensato prima. Perché un’attività così concepita non va pensata, pena un drammatico fallimento, come un insegnamento di recupero per ragazzi insicuri o “in difficoltà” ma come l’insegnamento di abilità di vita, utili ed essenziali per chiunque.
A che serve la scienza del sé?
La Scienza del sé si rivela utile per
- l’autoconsapevolezza, ossia la capacità di riconoscere i sentimenti e di costruire un vocabolario per la loro verbalizzazione;
- la capacità di cogliere i nessi tra pensieri, sentimenti e relazioni;
- il controllo delle emozioni, come capire che cosa si celi dietro ad un sentimento (per esempio, l’offesa che scatena la collera) e imparare a trattare l’ansia, la rabbia e la tristezza.
È, ancora, necessaria per lo sviluppo delle abilità sociali, come
- l’empatia, cioè la capacità di comprendere i sentimenti degli altri e di assumere il loro punto di vista, nel rispetto dei diversi modi di porsi davanti alle situazioni;
- l’assunzione di un atteggiamento proattivo nelle relazioni interpersonali, in termini di apprendimento;
- ascolto attivo;
- curiosità costruttiva;
- collaborazione,
- risoluzione dei conflitti e
- negoziazione dei compromessi.
Nella Scienza del sé non vengono dati voti: è la vita stessa l’esame finale. Ma, per prepararsi, occorre impegno e costanza. Con il tempo, i destinatari diventano abili
- ad identificare i sentimenti;
- denominarli e
- distinguerli.
Tutto a beneficio di una scuola, di una società e di relazioni migliori.
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