Secondo Frédérique de Vignemont, ricercatrice del CNRS all’Università di New York, e Pierre Jacob, direttore di ricerca all’Istituto Jean Nicod di Parigi, provare empatia per qualcuno che soffre non è solo questione di sensibilità. Nel lavoro pubblicato in lingua italiana dalla rivista Mente & Cervello di Maggio 2012, gli autori spiegano l’empatia con la capacità di immaginare il dolore altrui, lavorando di fantasia e facendo appello alle esperienze personali.
Il modello tripartito dell’empatia
Il termine inglese emphaty, dal greco composto “en”, dentro, e “pathos”, passione, sofferenza, significa «sentire dentro quello che uno prova». Fu introdotto, nell’accezione in cui noi lo usiamo, nel 1909 dallo psicologo statunitense Edward Titchener, che cercava una parola diversa da simpatia, sentire insieme quello che uno prova, per indicare la capacità umana di mettersi al posto degli altri per capirli meglio.
Dai primi anni, ancora le ricerche intorno all’empatia fanno riferimento al modello tripartito, proposto dal filosofo tedesco Theodor Lipps nel 1903 agli albori degli studi sperimentali sull’empatia. Queste le tre proposizioni che lo fondano:
- L’imitazione motrice, l’atto di vedere un’altra persona esprimere apertamente un’emozione, in particolare attraverso le espressioni del volto, che porta automaticamente l’osservatore a imitarla.
- La somiglianza psicologica interpersonale, quella che s’innesca quando l’imitazione motrice induce automaticamente l’osservatore a provare l’emozione che ha generato il comportamento altrui.
- La comprensione empatica, ovvero la condivisione delle emozioni degli altri.
Appare, dunque, evidente che in questo modello la comprensione dello stato emotivo dell’altro poggia sull’imitazione motoria e sulla somiglianza psicologica interpersonale.
Le condizioni d’empatia
Nella nuova lettura di Frédérique de Vignemont e della neuroscienziata tedesca Tania Singer, il modello di riferimento cambia. Secondo questa nuova visione, una persona (chiamiamola Matteo) prova empatia per un’altra (Mario), se si verificano quattro condizioni essenziali:
- Mario si trova in uno stato affettivo dato, per esempio, dal dolore o dalla tristezza (condizione di affettività, quella in cui la persone osservata deve essere in un preciso stato affettivo; se questa condizione non è soddisfatta, non si può avere né empatia, né contagio emotivo);
- questo stato affettivo ricorda per certi aspetti quello di Matteo (condizione di somiglianza interpersonale, quella in cui lo stato affettivo dell’osservatore assomiglia a quello della persona osservata; se questa condizione non è rispettata non si può parlare di empatia, né di contagio emotivo ma, al più, di reazione emozionale);
- lo stato emotivo di Mario provoca, è la causa di quello di Matteo (condizione di trasmissione causale, ovvero la condizione in cui lo stato affettivo della persona osservata è la causa dello stato affettivo dell’osservatore; senza trasmissione causale, non c’è né empatia, né contagio emotivo);
- infine, Matteo è cosciente della relazione causale tra lo stato affettivo di Mario e il suo (condizione di attribuzione, la condizione in cui l’osservatore è consapevole della relazione causale fra il suo stato emotivo e quello dell’altro).
Le quattro condizioni sono necessarie perché si possa parlare di empatia, benché da sole non siano sufficienti. Per essere veramente in empatia con una persona che soffre, bisognerebbe riuscire a sperimentare una condizione d’animo che conduce l’osservatore a
- inquietarsi per la sofferenza dell’altro,
- rappresentarsene la dimensione soggettiva,
senza tuttavia risentirne fisicamente. Proprio l’assenza del contagio fisico del dolore, infatti, permette all’osservatore di prendere coscienza che è l’altro a soffrire.
La condivisione del dolore
Applicata al dolore, questa definizione di empatia permette di distinguere
- il dolore empatico
- dalla comprensione non empatica del dolore altrui e
- dal contagio doloroso.
Facciamo un esempio in tre scene.
- Quando un’infermiera inietta un vaccino ad un neonato che strilla di dolore, non condivide il dolore del suo piccolo paziente, poiché sa che questo potrebbe compromettere la sua efficienza. Siamo, quindi, in questo caso, in una situazione di sospensione della seconda condizione, quella di somiglianza interpersonale.
- La sorella del neonato, di sei anni, però, assiste alla scena e si prepara anche lei alla vaccinazione. Vedendo l’ago della siringa che penetra la pelle del fratellino, comincia a fremere anche lei. E’ vittima di un contagio doloroso, immaginando il dolore che proverà, ma senza preoccupazione per il dolore del fratello. In questo caso, siamo davanti a una sospensione della quarta condizione, la condizione di attribuzione.
- Solo la madre del neonato prova empatia, perché risponde in modo coerente a tutte le condizioni. Il suo dolore non è provocato dalla vista dell’ago ma dal dolore del bambino. La donna sa che il figlio soffre e non può rappresentarsi mentalmente quel dolore senza provare un dolore empatico.
Immaginare il dolore altrui
Gli studi di Alessio Avenanti (Università di Bologna), Angela Sirigu (CNRS francese) e Salvatore Aglioti (Università «Sapienza» di Roma) hanno permesso di testare contagio doloroso e dolore empatico con un esperimento che è diventato celebre.
Ad alcuni volontari venivano mostrate tre immagini differenti:
- un bastoncino di cotone che accarezzava una mano,
- l’ago di una siringa che penetrava in un pomodoro e
- un ago che penetrava in una mano.
Dalla reazione dei partecipanti, fu possibile rilavare che solo l’ultima poteva essere considerata una condizione di empatia, per via dell’inibizione dei muscoli corrispondenti a quelli della mano osservata. Cioè, solo osservando la terza immagine, i volontari si comportavano come una persona sofferente che si immobilizza in risposta a un dolore.
L’attività cerebrale corrispondente alla componente affettiva dell’empatia del dolore nel cervello verrebbe, dunque, modulata da elementi legati alle situazioni e al contesto. Il contagio doloroso e il dolore empatico generano, infatti, risposte diverse in relazione ad un elemento essenziale dell’atto del sentire l’altrui dolore: immaginarlo.
Questa ed altre ricerche collegate hanno così dimostrato che chi è vittima di un contagio doloroso perde ogni controllo sulla propria immaginazione. Al contrario, quando un lettore diventa cosciente, ad esempio, della sua empatia per il personaggio di Anna Karenina, può interrompere volontariamente il processo immaginativo, attraverso il quale scambia un personaggio immaginario per una persona reale.
A dimostrazione del fatto le due situazioni sono distinte anche sul piano neurofisiologico.
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