Vedere la propria sagoma disegnata sul grande foglio di carta restituisce la percezione dei confini corporei e il collocamento nello spazio. La distanza che si crea tra l’immagine della figura umana e il suo autore permette a quest’ultimo di interiorizzare le sensazioni del corpo che comunica. Quali emozioni trasmette? Che cosa arriva agli altri del nostro corpo? Nella verbalizzazione finale di questo lavoro sulla consapevolezza di sé attraverso l’osservazione dell’immagine riflessa, il contributo del gruppo arricchisce di elementi l’auto-riflessione. L’autore può, così, scoprire molte più cose su di sé. Il medium creativo diventa l’intercapedine che porta ad affezionarsi nuovamente al corpo, i cui confini, derubricati dall’accezione negativa del “limite“, diventano possibilità e unicità di essere nel mondo.
Applicazioni del lavoro con la sagoma
Disegnare la sagoma del corpo è un lavoro altamente formativo. Osservare dall’alto la linea che separa, in fondo, “due vuoti“, ciò che è dentro da ciò che è fuori dal confine, dà l’idea dell’individuazione di sé rispetto al tutto. Risulta utile in psichiatria, laddove l’esperienza è, per certi versi, assimilabile all’autoritratto terapeutico. Il paziente psicotico, infatti, si percepisce confuso con il mondo esterno, “senza pelle“, per dirla con lo psicoanalista francese Didier Anzieu, autore del libro L’io-pelle, e, grazie alla creatività, può interiorizzare la distanza e la differenziazione tra il sé e l’oltre.
Fondamentale, sempre in ambito clinico, negli interventi in favore di persone con disturbi del comportamento alimentare (anoressia e bulimia), che sono sempre accompagnanti da una dis-percezione del corpo, percepito come troppo magro o troppo grasso. Lavoro in cui l’obiettivo diventa tornare ad amare il proprio corpo, “rivivendolo” in un modo altro grazie ai mezzi artistici. Nella foto in copertina, ad esempio, una grande rosa che riempie il corpo restituisce una visione molto diversa e più aggraziata della forma vuota.
Ma il lavoro con la sagoma può essere trasversalmente finalizzato alla crescita personale. In questo senso, lo utilizzo molto nei miei laboratori di formazione sul Metodo Autobiografico Creativo.
- Apprendere quali emozioni trasmetta,
- osservarne la posizione per riconoscerlo,
- comprendere se sia una posizione sociale, una maschera, poiché il lavoro è fatto in gruppo,
- rivedersi, come in un autoritratto, davanti a uno specchio,
- riappropriarsene, con tutti i suoi vissuti,
- comprendere quali storie racconti e che anche altri corpi raccontano storie, ognuna differente dalle altre,
permette la comprensione di sé e degli altri. Che è, poi, uno dei capisaldi dell’Intelligenza Emotiva per migliorare se stessi e le relazioni.
Le sagome di Matisse
In letteratura artistica esistono diversi esempi illustri di lavoro con la tecnica della sagoma. Uno dei più conosciuti è quello delle sagome di carta di Henri Matisse.
Negli ultimi anni della sua vita, quando le difficili condizioni di salute gli impedivano progressivamente la precisione dei gesti, Matisse cominciò a realizzare i cut-out, delle particolari sagome di carta colorata. In realtà non si trattava di una rinuncia alla pittura. Il pittore francese la chiamava l’arte di “dipingere con le forbici” e la considerava la sua più autentica espressione di sé, la sua liberazione.
I ritagli più belli sono raccolti in Jazz, un libro a tiratura limitata che Matisse pubblicò nel 1947. Ma l’opera più nota è quella che completò qualche mese prima della morte, un’esplosione di colore sotto forma di fascio di foglie. Realizzare le sagome con la carta, tuttavia, non era una novità del XX secolo. Già dalla metà del XVIII secolo, infatti, il ritaglio del profilo di un volto su cartoncino nero era una tecnica nota e praticata.
La raffigurazione della silhouette, che ebbe subito grande fortuna e seguito, diventa dinamica con il tempo, fino a consegnarsi a noi nell’antica e sempre attuale arte delle ombre cinesi.
Kara Walker e le sagome di denuncia
Kara Walker, artista californiana contemporanea, riprende, di fatto, la tecnica delle sagome di carta. Il suo lavoro di ricerca, per via del suo colore della pelle, la conduce indietro nel tempo, fino all’epoca che precede la Guerra Civile negli Stati Uniti d’America (1861-1865). In quello che oggi viene definito storytelling, l’artista di colore ripercorre e racconta in immagini la storia della schiavitù dei suoi avi. Mentre, infatti, a quel tempo, le mogli dei proprietari terrieri bianchi trascorrevano il loro tempo ritagliando sagome, intere famiglie, uomini, donne e bambini, vivevano in catene in quello che è uno dei capitoli più tristi della storia dell’umanità.
L’artista usa, senza filtri, gli stereotipi etnici e razziali, con caricature di schiavi e padroni ritratti in scene di violenza. Le sue opere sono una denuncia sociale, non tanto perché riportano alla memoria la storia dei neri d’America, quanto per la convinzione che razzismo e sessismo non siano mai definitivamente tramontati. Ovvero, che questi ultimi siano ancora temi caldi e attuali che influenzano, ancora oggi, l’inconscio collettivo e i comportamenti delle gente bianca.
Sovvertendo il fine ozioso di una pratica utilizzata come hobby, Kara Walker racconta, con palpabile dolore, storie di
- razzismo,
- potere,
- repressione,
- sottomissione,
- violenza,
- identità,
- schiavitù,
attraverso sagome nere di carta senza volto su fondo bianco (o viceversa) che hanno catturato l’attenzione dell’opinione pubblica, amplificata dal tam-tam mediatico, e ne hanno determinato il successo in tutto il mondo.
Il Metodo Autobiografico Creativo
Nel mio Metodo Autobiografico Creativo, il lavoro con la sagoma del corpo è una variante (o un’integrazione) di quello sul ritratto di sé. È un’esperienza intima, quella di disegnare la figura del corpo, che si articola momenti
- di attività a due,
- d’introspezione individuale e
- di condivisione di gruppo.
Lo scopo per i partecipanti è di
- prendere consapevolezza dei confini corporei,
- delle emozioni e
- dei vissuti.
Disegnare la sagoma
È un lavoro che, solitamente, faccio iniziare in coppie, dal momento che, una volta distesi su di un grande foglio, risulta complicato (benché non impossibile) disegnare da soli la sagoma del corpo. L’aiuto di un compagno è, pertanto, limitato a questo. Più di rado, infatti, ho lasciato che ogni partecipante la disegnasse in autonomia.
Tracciata la linea del confine corporeo, ogni partecipante può riappropriarsi della propria immagine vuota e, successivamente, riempirla, nelle sue diverse parti anatomiche, con ciò che ritiene opportuno:
- colore,
- immagini,
- parole o frasi,
- ritagli di riviste e giornali,
per attribuire significato ai vissuti personali elaborati.
Al termine, adagiarsi nuovamente all’interno della sagoma ha valenza di riprendersi tutto di sé:
- i confini del corpo (che, spesso, costituiscono il limite fisico percepito)
- e la storia vissuta (con la sua unicità e i suoi insegnamenti).
Nel corso degli anni, ho creato innumerevoli varianti di questa attività. Nella modalità estesa, quella che prediligo, una volta realizzata la sagoma personale completa, chiedo che venga esposta, per permettere agli altri partecipanti di “arricchirla” con una parola o un’immagine evocativa delle sensazioni che trasmette. La verbalizzazione finale in gruppo, in genere, chiude un intero percorso esperienziale alla ricerca di sé, attraverso un profondo lavoro sull’autobiografia.
Ma attenzione a riproporre questo lavoro. Ci vuole grande competenza per porre in essere ogni protezione che agevoli la narrazione di sé. Diversamente, può nascondere insidie, imprevisti e rivelarsi perfino dannosa. Soprattutto perché la verbalizzazione, che chiude il Vaso di Pandora delle emozioni emerse, insiste sulla linea di confine che separa (e, al tempo stesso, unisce) l’espressione inconscia di sé (che emerge attraverso il corpo e i messaggi che invia) dall’elaborazione cosciente dei vissuti individuali.
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