In antichità, la maschera veniva usata solo in particolari occasioni rituali che segnavano importanti fasi di trasformazione per la comunità di appartenenza (iniziazioni o riti di passaggio). Ma, al di là del contesto storico, l’uomo ha da sempre manifestato il bisogno d’indossare la maschera di fronte agli altri, quasi come un’esigenza psicologica di protezione di ciò che non poteva essere mostrato. Ne “La vita quotidiana come rappresentazione“, il sociologo d’oltre oceano Erving Goffman, vissuto nel secolo scorso, di fatto apre a un’evidenza: la nostra vita è una recita continua. Cioè, portiamo in scena una rappresentazione di noi stessi con le sembianze dei personaggi interni che sentiamo di poter interpretare.
Goffman e la maschera del quotidiano
La tesi di fondo di questo classico della sociologia contemporanea è che, nell’esistenza delle persone, una buona parte è fatta di rappresentazione. Ovvero, di gestione intenzionale dell’apparire “agli occhi degli altri”. E questo avviene sia per convenzione sociale, ovvero per le esigenze
- della vita associata,
- nel commercio,
- negli uffici della pubblica amministrazione,
- nelle professioni,
- nei servizi,
ma anche per la tendenza a presentare di sé la “maschera” che ciascuno ritiene più desiderabile. O più vicina al sé ideale. Peraltro, maggiore è il divario tra sé ideale e sé reale, più è difficile rinunciare alla maschera che diventa, così, la protezione della fragilità dell’Io. Lo scopo, naturalmente, è influenzare l’opinione altrui in un senso favorevole alla propria persona e al proprio ruolo.
La vita come rappresentazione teatrale
Secondo Goffman, dunque, la vita intera è vissuta come sul palco di un teatro dove ognuno interpreta una parte, complementare a quella di tutti gli altri individui (e di ogni altra maschera) con cui interagisce. Con una differenza: nel teatro esiste un patto di finzione tra pubblico e attore che, nella vita reale, viene accettato meno. Il “come se” della rappresentazione, in altre parole, genera conflitti nella vita reale, poiché ogni maschera vorrebbe che gli altri interpreti recitassero a viso scoperto.
Ma accade molto di rado che i personaggi narrino ciascuno di sé, senza veli. Scrive:
Quando un individuo interpreta una parte, implicitamente richiede agli astanti di prendere sul serio quanto vedranno accadere sotto i loro occhi. Egli chiede loro di credere che il personaggio che essi vedono possegga effettivamente quegli attributi che sembra possedere, che la sua attività avrà le conseguenze che implicitamente afferma di avere e che, in generale, le cose sono quali esse appaiono.
In un mondo nel quale tutti (nessuno escluso) recitano una parte (o più parti), i personaggi si adattano alla cultura del mondo e del tempo in cui agiscono. E’ così che la modernità modifica i suoi riti sociali, rendendo superflua la maschera fisica ma non l’esigenza umana di camuffarsi al cospetto degli altri.
E’, dunque, la vita in sé che è puro teatro (immagine molto cara a Pirandello).
La maschera come facciata personale
Il ruolo di facciata della maschera, quella che Goffman nel suo modello sociologico chiama “facciata personale”, si coniuga con la sua capacità di modellarsi in base all’“ambientazione”. Cioè, la maschera cambia secondo il contesto e lo spazio fisico in cui essa agisce.
Se, ad esempio, facciamo visita ad un amico, in casa sua, il nostro modo di fare sarà molto diverso dal comportamento che avremmo se fossimo in un ambiente e con persone che si vedono per la prima volta. Tutti, chi più chi meno, tengono a fare un buona impressione di, offrendo agli altri l’immagine più positiva possibile di sé.
Allo stesso modo, se siamo noi a ricevere delle persone in casa, desideriamo che la casa sia pulita e perfettamente ordinata, oltre che arredata con gusto e con originalità. Per questo molte persone si rifiutano di ricevere ospiti senza preavviso: per non farsi sorprendere con la casa in disordine e, di conseguenza, senza maschera.
Convenzione sociale di facciata, appunto, che vale per spazi fisici abitati come per le persone.
Maschera e creatività
Nel lavoro autobiografico sulla consapevolezza di sé attraverso la creatività, incontrare la maschera è come incontrare l’ombra. Lo spazio della creazione, rappresentato dall’espressione artistica, ad esempio in un laboratorio di Arti Terapie, diventa spazio per la
- riflessione,
- l’apprendimento e
- la conoscenza di sé.
Quella distanza, che crea l’arte nel passaggio dalla
- realizzazione del ritratto del personaggio fantastico (che è sempre autobiografico)
- alla maschera,
- alla sua entrata in scena (come nell’evoluzione in foto),
premette di creare un intercapedine che facilita la narrazione del reale. Dunque, la narrazione autobiografica o, se vogliamo, la fiaba del sé, in cui protagonista e antagonista
- si incontrano,
- si riconoscono e
- mediano le loro diversità,
come parti opposte della stessa identità.
E’ così, comprendendo la differenza tra tenere in mano la maschera e indossarla che arriva la consapevolezza del ruolo dei diversi personaggi interiori che portiamo in scena nel corso della nostra esistenza.
Archetipi opposti e interiorizzati
Per Gustav Jung esiste un inconscio collettivo, cioè una struttura psicologica di base, costituita da archetipi condivisi dall’intero genere umano, modelli innati a cui appartiene anche la maschera e la sua funzione sociale. Il rapporto dialettico tra gli archetipi, opposti e interiorizzati (Animus-Anima, Persona-Ombra), generano, a loro volta, le dinamiche psichiche individuali.
- Così l’Ombra, per Jung, è la parte oscura (ma non necessariamente negativa, carica di energie creative) che l’individuo generalmente ignora. Nella fiaba, per fare un parallelo con il mio Metodo Autobiografico Creativo, corrisponde all’antagonista.
- La Persona è, per contro, la maschera, la facciata pubblica, rispettosa delle convenzioni sociali. Nella loro infinita saggezza, i latini consideravano il termine una “vox media“, cioè una parola con due significati opposti. Il dizionario Castiglioni-Mariotti traduce questa parola con “persona” ma anche con “maschera“. Per spiegare come ognuno è ciò che è ma anche ciò che desidera apparire. Per questo, nella fiaba è il protagonista della storia, destinato ad incontrare e mediare il rapporto con la propria ombra.
Anima e Animus
Siamo, dunque, opposti che cercano una mediazione. Opposti che trovano nella maschera il compromesso. Perché la nostra unicità si nasconde dietro di lei.
Siamo Sole, decisi e determinati, ma anche Luna, statici e contemplativi. Siamo maschile e femminile. O, per dirla ancora con Jung, siamo Animus e Anima, oltre ogni identità sessuale, poiché elementi dell’uno appartengono sempre anche all’inconscio collettivo del genere opposto. Così
- l’Animus è l’aspetto logico, razionale e saggio, mentre
- l’Anima è spontanea, intuitiva e materna.
Nella relazione tra gli archetipi, innati e immutabili, e le esperienze, soggettive e contingenti, la funzione simbolica produce una sintesi ricca di energia creatrice. Quella funzione simbolica può essere rappresentata dalla maschera che può agevolare la trasformazione alchemica che Jung chiama individuazione. Ma che comporta la consapevolezza delle implicazioni della maschera a cui conduce solo il processo creativo.
Tra gli istinti di
- fame,
- sessualità,
- attività,
- riflessione e
- creatività,
infatti, lo psicoterapeuta austriaco considera quest’ultima la massima espressione dell’intelligenza dell’uomo come razza evoluta, al di sopra di ogni altra specie vivente. Perché è la creatività che permette la massima espressione del potenziale che, attraverso la produzione di simboli, porta fino alla spiritualità.
L’individuo capace di rapportarsi in modo maturo col mondo sa produrre visioni creative, senza perdere il contatto con il proprio Sé: luogo in cui si trovano la saggezza dell’organismo, la sua vocazione, la sua tensione a sviluppare il pieno potenziale.
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