L’autoritratto è un incontro. Per questo, come ogni incontro, ha il dono dell’imprevedibilità, perché riserva sempre delle sorprese. L’atto di ritrarre se stessi con un disegno non richiede tecnica. Anzi, è più veritiero se prodotto istintivamente, senza pensarci, per gioco. Poi, però, quell’incontro prende voce, si anima e racconta una storia al suo autore. Spesso, però, è la storia che egli non ha inteso ascoltare ma che, attraverso il medium creativo, adesso agisce in modo sotterraneo. Così l’autoritratto ridesta emozioni, spesso anche forti e sopite, fissate dal colore in modo indelebile sul foglio, e si impone all’attenzione, generando, in tal modo, auto-conoscenza e consapevolezza.
Dove nasce l’autoritratto
Gli artisti del passato raffigurano se stessi, con colori e su pietra, fin dall’antico Egitto. La tradizione occidentale prosegue attraverso i Greci e i Romani, che sono celebri per la loro ricerca di obiettività e realismo. Famose in questo senso restano le opere dell’Ellenismo.
Nel Medioevo, gli artisti ricorrono generalmente agli autoritratti per conferire a se stessi autorità, mentre il ritratto viene utilizzato per sottolineare lo status o la funzione del modello. In altri termini il ruolo da questi ricoperto all’interno del contesto sociale, politico o religioso di riferimento.
Oggi, l’autoritratto è definito, nel lessico artistico, il quinto genere dopo
- le storie,
- i paesaggi,
- le nature morte e
- i ritratti.
Autoritratto e personalità
L’attenzione alla personalità del modello diviene parte integrante del ritratto solo all’inizio del Rinascimento. “L’uomo misura di tutte le cose” del tempo genera una nuova idea di individualità e carattere. Ecco, quindi, che il ritratto diventa un mezzo per affermare il carattere singolare di ogni personalità. La particolare attenzione dedicata al volto, inteso come specchio dell’anima, rivela, poi, le dimensioni psicologiche del modello.
Ma l’autoritratto ha anche una forte valenza sociale. Per ritrarsi, occorre, infatti, confrontarsi con lo specchio, con il proprio doppio. E, soprattutto, come dice Winnicott, con il rispecchiamento di sé nel volto dell’altro. Proprio il rapporto con l’altro è fondamentale per la formazione dell’identità. Come il bimbo si rispecchia nel volto materno, così l’adulto osserva se stesso attraverso gli occhi degli altri. O, meglio, attraverso l’immagine che egli pensa che gli altri abbiano (o debbano avere) di lui.
Nell’Art Brut l’autoritratto diventa un’auto-rappresentazione che induce l’autore a proiettare se stesso nel dipinto, di solito inconsapevolmente, per creare un luogo di incontro con quella parte di sé che ama nascondersi. Che poi è la parte non stereotipata che
- custodisce la verità e l’essenza di ogni uomo, quella parte mancante che rende vulnerabili,
- fragili e incompiuti,
- che manifesta l’assenza attraverso il dolore e l’insoddisfazione.
Narrare di sé con l’autoritratto
Allora, che idea può dare del modo in cui si vede, nel mondo, chi realizza un proprio autoritratto di spalle, come nel disegno a sinistra nella foto? Oppure con il lato selvaggio, quasi piratesco, con
- cicatrici sparse,
- ghigno del disgusto e
- occhi sbarrati e marcati,
come nel caso dell’autoritratto a destra?
Sono entrambi lavori realizzati nel corso di un mio laboratorio sul Metodo Autobiografico Creativo per la consapevolezza di sé.
Il primo richiama l’assenza. Sembra essere un chiaro rifiuto di guardarsi in faccia, rifuggendo, peraltro, in equilibrio sulla fune in salita, l’incontro con se stessa. La dimensione sociale di questo autoritratto può essere di una personalità evitante, che si rifiuta (o preferisce o non riesce) di guardare in faccia la realtà, preferendo darle le spalle. A me, per lo meno, dà questa sensazione.
Mentre l’uomo a destra preferisce mostrare il suo lato rude. Spiccano, nel disegno in bianco e nero (elemento tutt’altro che trascurabile),
- vistosi orecchini,
- capelli crespi che nascondono la fronte,
- occhi nerissimi, marcati e profondi che fissano diritto l’osservatore,
- labbra serrate con l’espressione del disgusto,
- barba incolta,
- mancanza del collo e torace alto (elementi tipici degli stati d’ansia) e
- varie cicatrici di guerra (peraltro, mal ricucite).
Insomma, un aspetto primitivo (e, per certi versi, terrifico, quasi mostruoso) della personalità che invia sensazioni abbastanza nette. In fondo, anche se siamo ordinati e gentili, può essere che riteniamo che gli altri riescano a vedere oltre la nostra maschera, oltre la facciata sociale.
Filtri della realtà
Poiché è impossibile osservare obiettivamente la realtà, essendo ogni osservazione una rappresentazione personale della realtà, la prima conquista è ammettere l’esistenza di filtri sui quali non riflettiamo neanche più.
La prima forma forma di consapevolezza, allora, sono proprio quei filtri. Ammettendone l’esistenza, possiamo osservare meglio la realtà e comprendere che le regole che abbiamo appreso nel corso della vita non sono assolute e che, di conseguenza, possono essere messe in discussione.
Osservare se stessi, come nel lavoro autobiografico, diventa pratica diffusa per volgere lo sguardo verso se stessi nei momenti cruciali della vita. Dipingersi è, dunque, un modo per
- guardarsi dentro, nel profondo,
- comprendersi e
- imparare ad esternare la propria interiorità.
Non serve essere artisti. In arteterapia, come nella fototerapia o nel Metodo Autobiografico Creativo, è, anzi, meglio non possedere competenze artistiche, perché la mancanza di tecnica rende più autentico e spontaneo il prodotto. La ricerca dell’essenziale, sintesi di un momento di vita, scarta il superfluo, come un archeologo che scava nel terreno, alla ricerca di tracce del passato.
È questo il senso del viaggio che permette l’autoritratto: la scoperta di se stessi, attraverso l’autoanalisi che, successivamente, diventa conoscenza del mondo.
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