Serve davvero parlare, quando un silenzio può raccontare, di più e meglio di mille parole, chi siamo, quello che desideriamo, quello che pensiamo? Il corpo parla sotto forma di segnali di ogni tipo, spesso (talvolta, purtroppo!) al di là di ogni nostra intenzione. Perché si tinge del colore e prende le forme delle nostre emozioni. Le emozioni che non mentono mai, contrariamente a quello che sappiamo fare con le parole. I greci parlavano di a-leteia (ciò che non è più nascosto) per dire verità. Quella verità che è dentro di noi, nascosta nel profondo delle stanze buie dell’inconscio, che all’improvviso, qualcosa fa riemergere. Ed ecco che uno sguardo, un rossore in viso, un gesto inconsulto ci tradisce e parla di noi.
Comunicare in silenzio
Ma quanto siamo abili noi a cogliere questi segnali? Cioè, quanto siamo abili ad ascoltare?
Per agevolare la consapevolezza della comunicazione del corpo, nelle attività di laboratorio di Arti Terapie faccio svolgere un’attività basata sulla riflessione rispetto alla distanza fisica che ciascuno intende come distanza di sicurezza dall’altro. C’è chi appoggia le mani sulle spalle del compagno, come fa in questa foto Kate Winslet, la Rose di Titanic, con Leonardo Di Caprio. C’è chi si posiziona ad un metro e si guarda bene dal toccare l’altro.
Sono tutti modi diversi di stare con l’altro, di prestargli attenzione e di restare in ascolto.
Quali significati si nascondono dietro comportamenti così diversi? Questione
- di educazione,
- di formazione personale,
- di esperienza,
- di mappe individuali,
- di modi di vivere le relazioni.
La metacomunicazione o comportamento non verbale
Questione di modi di vivere il corpo e le emozioni, dunque, che, in termini di comportamento, si traducono e si manifestano attraverso codici:
- il paraverbale (modulazione della voce in termini di velocità, intensità, frequenza, altezza, volume);
- la mimica (le espressioni del viso, come la bocca serrata, le sopracciglia aggrottate, il sorriso);
- la postura (la posizione e l’uso del corpo, come accavallare le gambe, battere i piedi, stare a gambe divaricate, camminare), la
- la gestualità (i segnali delle braccia e delle mani, come, ad esempio, stare a braccia conserte, mani a pugno, grattarsi);
- la prossemica (segnali di uso dello spazio fisico e di distanza dagli altri, come stare appiccicati o alla larga).
Ecco che cosa si intende con il termine di metacomunicazione.
I messaggi che inviamo
Ecco perché i blocchi nel corpo, la rigidità nella postura, la voce flebile o strozzata possono nascondere dei blocchi emotivi. Quando incontriamo qualcuno, ce ne accorgiamo subito, se vi prestiamo attenzione, ma sono informazioni che dall’altro ci giungono (e che da noi raggiungono l’altra persona) lungo una via bassa, non governata dalla logica e dalla ragione. Una via spesso inaccessibile senza un vocabolario emotivo appropriato. Eppure, in un attimo decidiamo se
- accettare,
- rifiutare o
- squalificare
l’altro. Lo facciamo senza accorgercene, prestando ascolto a questa via bassa che raccoglie per noi le informazioni in termini di
- utilità,
- immediatezza e
- ricorrenza,
al fine di consentirci di formulare velocemente delle ipotesi o delle impressioni su di una persona. A questo servono i segnali della comunicazione non verbale. Cosa ben più ardua è comprendere come decifrarli opportunamente, evitando di incorrere in proiezioni pericolose (cioè, di attribuire ad altri i nostri stati d’animo e le nostre emozioni).
Questione di sesto senso
Ti starai chiedendo che cosa pensano di te le persone che conosci. Cioè, quali siano i segnali non verbali che tu invii loro, senza opportunamente comandarli. Se è così, sei già a buon punto: porsi delle domande e mettersi in discussione sono i fondamenti per approdare ad una consapevolezza di sé che prelude alla conoscenza dell’altro.
Ma quante persone conosci che esprimono giudizi sugli altri fidandosi ciecamente del proprio sesto senso? Non dico che servirebbero ulteriori elementi d’indagine, riscontri o informazioni aggiuntive. Perlomeno, servirebbe un buon lavoro su di sé per empatizzare con i segnali non verbali che provengono dagli altri. Lavoro su di sé che poi, alla fine, nessuno è disposto a fare. Ed ecco che dalle sopracciglia aggrottate finiamo per evincere che il nostro interlocutore è arrabbiato mentre, invece, è solo concentrato.
Con il partner
Magari in quel momento siamo noi ad essere arrabbiati e proiettiamo negli altri le stesse emozioni che stiamo provando. La letteratura dei rapporti di coppia offre esempi a bizzeffe:
Lei: “A che pensi?”
Lui: “A nulla: mi sto solo rilassando.”
Lei: “Non è vero. Lo vedo che sei pensieroso.”
Lui: “Ti dico che mi sto solo rilassando: è che sono stanco.”
Lei: “Va bene, non vuoi dirmelo. D’ora in avanti non ti dirò niente nemmeno io.”
E via con le discussioni.
Il silenzio parla
Ora, è verissimo che un silenzio racconta più di mille di parole ma bisogna avere il giusto sentire per comprenderne il significato, poiché è così che funziona: noi diciamo tutto con il nostro corpo e senza aver bisogno di parole. Ma quello che diciamo è intellegibile ai pochi preparati e dotati di sensibilità.
Per questo, in attesa che anche tu diventi un mago della comunicazione non verbale, il consiglio migliore è di tornare sulle buone, vecchie, sane abitudini che molti hanno dimenticato. Si chiamano domande:
- “Mi sembri arrabbiato: è così?”,
- “Mi sembra che non ti interessi: mi sbaglio?”
- “Ti fa piacere?”
- “Cosa ne pensi?”
- “Qual è la tua opinione in proposito?”
Porsi cosi serve senz’altro a evitare conflitti, a utilizzare la comunicazione in maniera efficace, associando le risposte alle sensazioni del non detto, del non verbale. Altrimenti, vale il celebre detto di Oscar Wilde: “A volte è meglio restare in silenzio e sembrare stupidi che aprir bocca e sciogliere ogni dubbio.”
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