Siamo fatti di comunicazione. E in tutto questo, verrebbe da dire, come si usa oggi, “le chiacchiere stanno a zero”. Sono le relazioni che fondano il principio della socialità di cui abbiamo bisogno per evoluzione. E le relazioni si basano sulla comunicazione. Se vuoi approfondire l’argomento, ti consiglio questo mio articolo su relazioni e comunicazione. Ma come facevamo a comunicare prima della comparsa del linguaggio? Eppure, ci siamo comunque sviluppati grazie alle interazioni con gli altri. Solo che oggi i più dimenticano che il linguaggio verbale è un rinforzo di quello non verbale, che risponde a bisogni evolutivi più complessi e specifici, attribuendo alle due modalità ruoli inversi.
Parlare e comunicare
Comunicare, lo sappiamo, è l’essenza della nostra vita, in quanto mediatore delle relazioni umane. Nella vita di ogni giorno, nelle aziende, negli uffici, nelle aule della scuola, nei panifici, nei bar, nelle discoteche, si parla e, se non si parla, si comunica lo stesso. Di fronte a problemi di comunicazione, è, tuttavia, possibile rilevare un equivoco ricorrente: confondere l’atto del parlare con quello del comunicare. Ma esistono profonde differenze, poiché chi parla non sempre si preoccupa di chi ascolta, mentre il vertice d’osservazione su cui, viceversa, si basa tutta la comunicazione è far capire ad altri il nostro messaggio, in maniera chiara ed efficace, attraverso parole, immagini e gesti.
Conosci oratori particolarmente noiosi? Oppure, che pensi quando ascolti un giornalista televisivo che si trascina a spasso per tutto il TG le vocali, gettando a casaccio le pause? Ecco, dunque, la differenza nella sua essenza: non basta leggere un discorso o articolare delle parole per comunicare ma occorre avere un obiettivo, cioè fare in modo che il messaggio arrivi a destinazione esattamente secondo le intenzioni.
La comunicazione è un comportamento
Come hanno teorizzato gli studiosi della Scuola di Palo Alto, fondata dal già citato Paul Watzlawick, non è possibile non avere un comportamento e qualsiasi tipo di atteggiamento ha una valenza comunicativa. In base a questo assioma, la comunicazione è un comportamento. Ne consegue che, in qualsiasi tipo di situazione ed interazione, anche se parliamo lingue diverse, con o senza un’azione volontaria, inviamo messaggi.
Se, ad esempio, entri in ascensore e ignori l’unica persona presente, idem in panetteria, senza salutare alcuno dei tuoi colleghi in ufficio, oppure se non guardi in faccia nessuna delle persone che con te attendono l’arrivo dell’autobus, il tuo comportamento ha già lanciato un messaggio preciso: non hai alcuna intenzione di avviare uno scambio verbale con i presenti. Non serve, dunque, dar fiato alle trombe: è il nostro corpo che parla per noi in queste occasioni.
Metacomunicazione e segnali del corpo
Qualunque cosa facciamo, dunque, siamo costantemente immersi nel processo di comunicazione: noi emettiamo segnali sempre, continuamente, automaticamente, anche quando crediamo di non farlo o molto al di là delle nostre intenzioni. E percepiamo segnali, li valutiamo, li esaminiamo, li accogliamo, perché significativi, o li respingiamo, perché fuorvianti. Anche in questo caso, il più delle volte, senza rendercene conto.
Qui, naturalmente, bisognerebbe approfondire le implicazioni della comunicazione non verbale. Ma ci ritornerò presto, essendo la comunicazione verbale l’oggetto di questo mio scritto. Ma già così è più chiaro perché parlare non sia un sinonimo di comunicare: perché mancano una serie di informazioni che completano il linguaggio verbale e agevolano la comprensione del messaggio globale. Manca la metacomunicazione, ovvero tutti i segnali emotivi, di senso, della comunicazione stessa.
L’atto di comunicare
L’atto di comunicare, dunque, non coincide con quello di parlare. Il secondo è un processo intenzionale, mentre il primo è un processo automatico, innato e di generale inconsapevolezza. Ecco perché talvolta facciamo fatica a rendercene conto: perché è tutto il nostro corpo che invia e registra questi segnali, anche quando è fermo (l’uomo riesce a comunicare anche con l’immobilità, attraverso il corpo in posizione statica).
Così, se immaginiamo una persona ferma, attenta, tesa ad ascoltare un oratore che parla, o, piuttosto, la rassegnata immobilità di un povero che chiede elemosina sul ciglio di una strada, avremo significanti differenti che connotano i due differenti comportamenti statici). Al di là delle nostre stesse intenzioni. È un segnale un viso allegro (e viene recepito normalmente come simbolo di una buona disposizione d’animo da parte di chi lo emette) ed è un segnale un gesto brusco (e tende infatti ad essere recepito come segno di nervosismo da parte di chi lo emette).
I principi della comunicazione verbale
Comunicare vuol dire, dunque, innanzitutto emettere segnali e riceverne. Ma benché tutti, dunque, siano in grado di comunicare, non tutti sanno farsi capire. Ne deriva che prima di comunicare un messaggio occorre stabilire chi sarà il destinatario, valutarne il grado di cultura (e di capacità di comprensione) e adattare a lui il nostro linguaggio. Il protagonista non è più il trasmittente/comunicante, bensì il ricevente. E far pervenire al destinatario un corretto messaggio, che tenga conto dei mezzi culturali a sua disposizione per decodificarlo, rende efficace la comunicazione. Da qui, la nostra naturale propensione di lasciare a ciascuno il proprio tempo e il proprio spazio per esprimersi, alternando opportunamente l’ascolto con la capacità di porgere in maniera coerente ed efficace i contenuti del nostro linguaggio parlato.
Ed ecco i 5 principi fondamentali della comunicazione verbale:
- chiarezza;
- completezza;
- concisione;
- concretezza;
- correttezza.
Quale tra questi ritieni sia l’aspetto più importante della tua personale modalità di comunicare?
Dovrebbero coesistere ma spesso non accade. Cioè, chi è completo, non sempre risulta conciso, con il risultato di essere dispersivo e di facilitare la distrazione nell’ascoltatore. Oppure, chi è conciso, non sempre risulta chiaro.
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