Equilibrio interiore e benessere psicofisico sono i fondamenti della felicità personale e delle relazioni sane con gli altri. A loro volta, entrambi dipendono dal grado di consapevolezza che ognuno ha di se stesso. E’ la consapevolezza di sé, infatti, che apre le porte alla conoscenza degli altri. Chi vive rapporti conflittuali con gli altri spesso vive, soprattutto e prima di tutto, un conflitto con se stesso. Che si riflette, poi, nelle relazioni e nella qualità della vita professionale e sociale. Solo che, nella maggior parte dei casi non ne ha la consapevolezza.
Conosci te stesso per conoscere l’altro
Molte persone, quasi tutte, per la verità, credono di conoscersi. Ma, nella verità, ciascuno (lo dicono le ricerche)
- ha solo una conoscenza superficiale di sé,
- di cosa lo porti a pensare e ad agire in un certo modo,
- di quanto delle proprie dimensioni intime proietti sugli altri.
Proiettare, tra l’altro, è davvero il peggior nemico del benessere e dell’equilibrio interiore. Non solo perché, come descritto da Anna Freud, è un meccanismo patologico di difesa dell’Io. Ma perché porta l’individuo a focalizzare negli altri i nodi cruciali delle personali questioni rimaste irrisolte. Così, una persona ansiosa che non ha consapevolezza della propria condizione e di quanta ansia trasmetta agli altri finirà per vederla in chiunque. Proiettando, appunto, questo stato d’animo personale sugli altri.
Una scarsa consapevolezza conduce, peraltro, a consolidare alibi e convinzioni anche gravemente limitanti. Cioè, a vedere a senso unico, senza mettere in discussione criticamente i propri punti di vista, ritenuti tutti corretti “in un mondo di gente strana che ha sistematicamente torto”.
Un po’ quello che accade nella “profezia che si autodetermina” di Paul Watzlawick. La spiego con un esempio. Se io sono convinto di essere antipatico a tutti, mi comporterò immaginando che questo sia ciò che pensano gli altri di me. Così, reagendo d’impeto nei confronti degli altri ad un sentimento che è solo nella mia testa, finirò, per l’appunto, per risultare antipatico.
La felicità degli stupidi
Essere così, tuttavia, nei casi estremi ha anche enormi vantaggi. Avere, infatti, scarsa consapevolezza di sé porta a
- non farsi troppe domande,
- non avere mai dubbi,
- darsi sempre ragione.
Da certi punti di vista, porta addirittura ad essere felici. E questa è una delle strade possibili, molto battuta, invero, dagli stupidi. Attenzione: la condizione di stupidità è all’opposto esatto di quella dell’intelligenza. Secondo Paolo Legrenzi, autore del libro “La mente”, lo stupido è colui che
- non ha nessuna idea di sé,
- degli altri, né
- del mondo circostante.
Quindi, è un discorso di grande pertinenza con la consapevolezza. O, meglio, con il suo opposto.
Consapevolezza ed equilibrio
L’altra strada, più impervia e meno trafficata, porta alla conoscenza di sé. Ma è sempre in salita. Tuttavia, una volta in cima,
- permette di vedere tutto da nuovi vertici di osservazione.
- Consente di distinguere ciò che appartiene a noi, alla nostra sfera intima, da ciò che appartiene agli altri.
- Permette anche di staccarsi dalla sofferenza altrui prima che diventi la nostra.
- E di conoscere gli altri, conoscendo prima se stessi, per poter essere loro d’aiuto.
Questo è, in fondo, il senso del vivere in armonia, con equilibrio interiore.
Equilibrio e relazione d’aiuto
Prendiamo, a proposito, chi lavora nella relazione d’aiuto. Parlo di insegnanti, psicologi, educatori ecc.. Bene. La consapevolezza è la linea che separa, sul piano emotivo, il “portarsi a casa il lavoro” dal lasciarlo a scuola o in comunità per poi riprenderlo il giorno dopo. È la consapevolezza di sé che permette al professionista di
- riconoscere la propria vulnerabilità ma di fortificarsi.
- Di concedersi serenamente il beneficio del dubbio e dell’errore e
- di ammettere il feedback degli altri come riscontro del proprio modo di essere e di agire.
E di imparare ogni giorno qualcosa in più su se stesso e sugli altri.
Per contro, la mancanza di consapevolezza mette a nudo bruscamente
- i limiti e
- la fallibilità.
Il che alimenta la conflittualità interna e sconosciuta provocata dal “clandestino a bordo”. È quel clandestino che, a contatto con le emozioni disordinate che si confondono nello scambio “Io-non Io”, risveglia e rinvigorisce lo stato di silente sofferenza che provoca senso d’impotenza e di frustrazione.
Il burn-out
Si presenta così il burn-out, quella sensazione di andare a fuoco che, talvolta, attanaglia chi lavora a scuola o con persone fragili. Certo, un ambiente di lavoro sereno e tranquillo contribuisce a prevenirlo. Ma non è tutto. Ci sono, poi, gli aspetti della personalità di ogni operatore che incidono in modo decisivo sui fattori di rischio.
Esistono sempre fattori predittivi che possono aiutare nella scelta delle giuste figure professionali per i ruoli più delicati. Poiché, tuttavia, nessuna istituzione stabilisce test psico-attitudinali d’ingresso per valutare l’idoneità a lavorare nella relazione d’aiuto senza correre il rischio di bruciarsi, occorre fidarsi dello zelo di ciascuno. Ma in natura questo zelo è merce rara. Del resto, se ci fosse, saremmo già nel campo della consapevolezza e della responsabilità del ruolo.
Ma le persone se ne ricordano quando è troppo tardi, quando un’istituzione è intossicata dal germe del malessere che prelude al burn-out. E, di conseguenza, quando la prevenzione non serve più.
Per questo, le tendenze rispetto alla questione sono due.
- La prima è ignorare quanto fin qui detto e proseguire per la solita strada, viaggiando a vista. Perché, tanto, la situazione è sotto controllo e il problema è degli altri.
- La seconda, alternativa, è scegliere responsabilmente un aggiornamento periodico che persegua, al tempo stesso, anche la dimensione del benessere e dell’equilibrio psicofisico.
Il ruolo della creatività
Ci sono le attività creative per questo. La creatività, infatti, ponendosi come intercapedine tra conscio e inconscio, permette di rileggere la storia individuale grazie alla decodifica di segnali emotivi che si presentano al suo autore sotto forma di espressione artistica. Possiamo considerarla come ponte tra una realtà intima, sconosciuta, e una esteriore, con cui si ha maggiore dimestichezza.
Così, dialogare creativamente con i suoni, bypassa il linguaggio verbale e arriva al nucleo della comunicazione che è fatta delle emozioni che vengono veicolate in modo non mediato. Appropriarsi (o, meglio, riappropriarsi) di quei codici permette l’acquisizione di un vertice altro di osservazione su di sé. Permette di vedere ciò che gli altri vedono, ciò che di sé arriva subito agli altri. E questo è il senso di un lavoro sulla consapevolezza con i linguaggi della creatività. Vale per la musica ma vale anche per l’arte pittorica, plastica e per il movimento non strutturato.
Vale anche per la scrittura creativa, spontanea, che, una volta elaborata, apre le porte a nuove conoscenze. Su di sé e, subito dopo, sugli altri. Il clandestino a bordo della nostra vita, ad esempio, in una fiaba, diventa l’antagonista in una storia in cui l’intreccio dei simboli e delle metafore confondono il messaggio esistenziale fino a quando essi non saranno stati dipanati.
Ma bisogna averne
- l’intenzione,
- l’attenzione e
- la pazienza di chi sa di doversi mettere in gioco per sbrogliare questi nodi.
Proprio questa consapevolezza ripristina l’equilibrio. Ricompatta il ben-essere, cioè l’armonia tra le diverse parti di sé, corpo e mente prima di tutte, che è alla base della prevenzione di ogni mal-essere.
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