Tommaso è sempre stato un bambino precoce: ha camminato e parlato prima di tutti i suoi coetanei. A 5 anni leggeva e scriveva, anche in francese. A 6 suonava il violoncello ed era già nell’Orchestra del Conservatorio Santa Cecilia di Roma. A 7 risolveva già problemi di aritmetica di prima media. Va da sé che genitori e insegnanti nutrissero fortissime aspettative nei suoi confronti. Padre medico, molto noto e affermato, madre farmacista, Tommaso è cresciuto a Roma e, da subito, è stato l’orgoglio di tutti. Il figlio di un genio dev’esserlo per forza anch’egli. E così era, in effetti. Anche grazie alla presenza costante della madre, molto presente e attenta, che lo ha sempre considerato grande. Sul futuro brillante che lo attendeva nessuno ha mai avuto il minimo dubbio. Ma, all’improvviso, qualcosa si rompe.
Genio ribelle
Con l’inizio della scuola media, Tommaso diventa un altro. La noia di dover studiare argomenti di cui aveva già letto, la frustrazione di dover tenere il ritmo più lento degli altri bambini e la mancanza di stimoli lo demotivano. Nonostante i divieti della madre, Tommaso inizia ad appassionarsi a internet e ai videogiochi. Chiede e ottiene uno smartphone, apre con il fratello, più piccolo di tre anni, un canale su YouTube per la composizione di video-storie a fumetti. Diventa chiuso, oppositivo, sia a casa che a scuola, perso nei suoi pensieri, svogliato e senza obiettivi. Il rendimento scolastico crolla ai limiti della sufficienza che riesce ad assicurarsi facendo “il minimo sindacale”.
Anche i genitori, pur continuando a credere in lui, cambiano le loro aspettative. Non riuscendo a motivarlo in alcun modo, chiedono alla scuola di farlo, di riportare in vita quella scintilla che lo rendeva tanto speciale. Ecco:
- che ruolo hanno giocato in questa involuzione di Tommaso le aspettative?
- Può essere che, ad un certo punto, abbia avuto voglia di essere semplicemente uno dei tanti?
- Senza sentirsi caricato di responsabilità eccessive che altri suoi coetanei non hanno?
Il ruolo delle aspettative
Quello di Tommaso è solo un esempio. Va preso nel suo valore relativo. Dico meglio: se, in relazione ad un dato apprendimento, da un ragazzo ci si aspetta qualcosa che non arriva, la frustrazione è dietro l’angolo. Per la famiglia, per la scuola come istituzione e per gli insegnanti. Forse è maggiore se scema in un ragazzo considerato un genio e tocca di più la famiglia che patisce e assiste alla trasformazione negativa. Un risultato scolastico al di sotto di un’aspettativa media, viceversa, preoccupa di più la scuola. Che poi allerta la famiglia che se la prende con l’insegnate. Ecco che il sistema si ammala.
E’ noto quanto le aspettative positive influiscano sul successo scolastico, siano esse aspettative dello scolaro, degli insegnanti o dei familiari. Per dirla con R. Rosenthal e L. Jacobson, che per primi parlarono di effetto Pigmalione, l’agire di un individuo è sempre strettamente connesso con le aspettative di cui viene investito. Una parte considerevole del nostro comportamento è, infatti, guidata dalle norme e dalle attese che gli altri, o noi stessi, riponiamo nei nostri confronti.
Che fare?
Potremmo iniziare con il farci delle domande.
- Da genitori e da insegnanti, che effetto hanno le nostre azioni sui nostri ragazzi?
- In che modo essi ci percepiscono?
- Cioè, qual è la distanza che frapponiamo nella relazione educativa? E’ troppa o troppo poca?
- Quelle che riponiamo in loro sono aspettative reali o proiezioni delle nostre?
- Ancora: qual è l’effetto che hanno le loro azioni su di noi?
Dare il massimo come educatori è lecito e doveroso. Ma siamo sempre sicuri di riuscire a non superare la sottile linea rossa che separa un’aspettativa da un obiettivo?
E se ci fossimo sbagliati? Cioè, se non siamo sempre, necessariamente, davanti al genio ribelle che va pungolato? Se ci allontanassimo dall’idea della pagella, del voto finale, per concentrarci sul processo?
Che cosa cambierebbe, dunque, se, per una volta, ci limitassimo ad accontentarci che l’alunno dia il massimo di ciò che può dare in quel momento? E che estrinsechi, con i suoi tempi, le sue personalissime potenzialità? Che saranno molto diverse da quelle degli altri. Non avremmo forse una scuola migliore e adulti migliori?
La profezia che si auto-avvera
Perché, appena iniziamo a temere che qualcosa possa andare storto, puntualmente accadrà. Ecco la profezia che si auto-avvera. Paul Watzlawick la definisce come “una supposizione che, per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria ‘veridicità’”.
Così, in ambito educativo, è importante che le aspettative dei tre attori principali (famiglia, alunno e insegnante) siano convergenti e positive. Perché incidono fortemente le aspettative negative anche di un solo referente, soprattutto se l’elemento di frizione è rappresentato dalla famiglia. E’ così, infatti, che si innesca il cosiddetto effetto Rosenthal: la profezia che si auto-avvera. L’alunno, investito di eccessive aspettative affinché ne venga scongiurato l’insuccesso, finirà col rispondere male al programma curricolare davanti a tanta pressione.
E’ questo un concetto chiave in Thomas Gordon nel libro Insegnanti efficaci, che consiglio.
Se, dunque, l’educatore, specie l’insegnante, vorrà sforzarsi di non essere più percepito come uno straniero, dovrà aver cura di inviare al ragazzo rinforzi congrui. Positivo o negativo che sia, è proprio il rinforzo, infatti, che permette di valorizzare i movimenti identificatori e che consente all’alunno di assimilare gli insegnamenti appresi. Solo accogliendo lo studente, egli si lascerà portare per mano verso quegli obiettivi di sicurezza e indipendenza che gli permetteranno di costruirsi un futuro felice.
Certo, anche la famiglia dovrà fare il suo. In termini di comprensione collaborazione. Ma questa è un’altra storia. E qui, per ora, mi fermo.
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