Che cos’è l’adolescenza per i ragazzi, per i loro genitori e per la società? Un tragitto lungo e spesso faticoso dall’infanzia all’età adulta, durante il quale costruire identità e progetto di vita. Possiamo definire l’adolescenza come una fase della vita che incomincia nella biologia e finisce nella società. In molti paesi, dove prevalgono forme sociali primordiali, l’adolescenza come età non esiste neppure. Si direbbe, dunque, che l’adolescenza sia un’invenzione dell’occidente. Se ne inizia a parlare sul finire del XVIII secolo all’interno di alcuni strati sociali e si afferma di pari passo con la trasformazione delle comunità in società. Ovvero, quando nelle prime forme sociali evolute si inizia a parlare di pianificazione del lavoro, di preparazione professionale, di ruoli pubblici e di fasce d’età.
Adolescenti nella terra di mezzo
Prima di allora, a scandire l’uscita dall’infanzia c’erano soltanto la pubertà, come evento biologico, e i riti di iniziazione, riti di passaggio al mondo adulto, spesso praticati collettivamente. Le innovazioni apportate dalla scienza e dalla tecnologia al mondo del lavoro e il crescente benessere economico (che ha caratterizzato i paesi occidentali negli ultimi due secoli) sono i fattori che più hanno contribuito a determinare la caratterizzazione specifica di questa stagione della vita, tra infanzia e adultità.
Oggi, moltissimi giovani continuano a studiare oltre i trent’anni, posticipano a tempo indeterminato le responsabilità della famiglia, dedicano gli anni giovanili alla formazione personale senza l’assillo di dover trovare un lavoro. Cioè, una volta comparsa sulla scena pubblica, l’adolescenza non ha più smesso di dilatarsi, fino a produrre una nuova stagione, la post-adolescenza, funzionale a contenere le nuove condizioni della pre-maturità.
Vi sono dentro quei giovani adulti che a ventidue, venticinque, trent’anni anni e anche più continuano ad abitare nella casa dei genitori e a dipendere economicamente da essi, affrancandosi dallo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa (perché non conforme alle loro aspettative) e dal rendersi autonomi e indipendenti anche sul piano affettivo.
Questo significa che, in moltissimi casi, l’adolescenza non ha mai fine.
- Ma che cosa rappresenta per questi teenager di lungo corso il soggiorno in questa terra di mezzo?
- E che cosa rappresenta l’adolescenza per i loro genitori e per la società?
- È giusto considerarla un’età felice o problematica?
Il lavoro psicologico
Intanto, occorre precisare che, benché non per tutti l’adolescenza sia un momento difficile e di conflitto con i genitori, resta parimenti vero che ogni adolescente ha un “lavoro” psicologico da svolgere per poter uscire dallo stato infantile e approdare a quello di giovane adulto: un lavoro su se stesso e nei rapporti con gli altri (famiglia, coetanei, società) che alcuni riescono a svolgere agevolmente, altri con difficoltà, ma che tutti devono comunque fare. Per maggiore chiarezza, questo complesso lavoro psicologico, spiega Anna Oliverio Ferraris in articolo del 2004 dal titolo Alla ricerca di un sé, pubblicato su Mind, può essere sintetizzato in una serie di “compiti”.
Un primo “compito” consiste nel rapportarsi con un corpo che cambia: assumere forme molto diverse da quelle infantili ed essere attraversati da flussi ormonali che modificano l’umore, gli interessi e lo stile di vita, a cui non si accompagna maturità cognitiva di pari livello, elicita il disorientamento che è tipica di questa età.
Nell’infanzia, i padroni del corpo del bambino sono i genitori. Ora invece il compito di integrare i nuovi impulsi all’immagine di un corpo dalle forme sempre più adulte grava sul ragazzo, che deve imparare ad accettarlo, a percepirlo come parte integrante di sé, a gestirlo e a valorizzarlo. Ma gli strumenti emotivi e cognitivi non sono ancora maturi per farlo. Così, c’è chi si sente in sintonia con il “nuovo” corpo ed è soddisfatto dei cambiamenti in corso e chi, al contrario, viva una profonda insicurezza: teme di essere inadeguato, brutto, ha bisogno di rassicurazioni e incoraggiamenti, ha paura dei giudizi degli altri.
Il corpo in adolescenza
In segno di difesa dalla trasformazione, c’è anche chi si sente autorizzato a non crescere. Alcuni teenager arrivano a rifiutare le trasformazioni fisiche e cercano di restare bambini il più a lungo possibile. Per molte ragazze anoressiche, ad esempio, il rifiuto del cibo non è solo un’adesione alla moda della magrezza: rivela anche il bisogno di controllare la crescita della “cosa”, ossia di quel corpo che viene a sovvertire un equilibrio con l’ambiente circostante che si pensava stabile e immutabile. Per altri si verifica una sorta di scissione temporanea tra l’io psichico e il corpo, le cui trasformazioni appaiono troppo rapide per essere assimilate, oppure troppo impegnative per essere gestite.
Il corpo viene, allora, ignorato oppure nascosto allo sguardo degli altri sotto enormi maglioni. Se a questo tipo di insicurezze si uniscono altre difficoltà con la scuola, la famiglia oppure con i coetanei, allora fumo, alcool, farmaci e droghe possono assumere il valore di angeli protettori a cui i teenager ricorrono per darsi coraggio o, nei casi più problematici, per dimenticare se stessi e la propria infelicità nel paradiso dei piaceri artificiali. Ovviamente questo rimedio rimuove il problema solo temporaneamente ma non lo risolve. Anzi.
Mentre, infatti, le “sostanze” allontanano i problemi, le timidezze, i malumori, fino a incapsularli, piercing e tatuaggi diventano, per contro, i segni visibili e provocatori della presa di possesso del corpo: un modo per dichiarare al mondo che non si è più bambini e sotto il controllo dei genitori ma persone autonome nella gestione del corpo e della sessualità. Poiché, tuttavia, non ne sono ancora dei tutto sicuri, i segni sulla pelle sono modi per obbligarsi a uscire allo scoperto. Ma non sempre il lavoro di pubblica autodenuncia si rivela facile, poiché la cosa più difficile è strutturare l’identità come dimensione psicologica allineata alla nuova idea di sé.
Le baby gang come corpo collettivo
È in questo momento che nasce l’idea di un corpo collettivo: per sottrarsi all’influenza degli adulti, fare blocco, trovare una collocazione nel mondo e farsi riconoscere come soggetti sociali, i ragazzi si uniscono “per fumare”, per ascoltare la “loro” musica, andare in discoteca e cosi via. In alcuni contesti, il gruppo è una banda che delimita un territorio, lo difende, ha dei capi, segue un codice di comportamento, inventa codici espressivi propri, adotta un look e affronta altre bande.
Secondo Herbert Bloch, autore di uno studio sulle aggregazioni giovanili, la banda assume il valore di un rito di passaggio. Con la differenza che, se i riti iniziatici delle società primitive, inseriti nella tradizione culturale, organizzati dagli adulti e obbligatori per tutti, favorivano la maturazione e funzionavano come ponti verso lo status di adulto, le baby gang attuali non promuovono alcun passaggio all’età adulta, al punto che, al loro interno, “si trovano spesso adolescenti molto cresciuti!”.
Le regole della banda
La banda tende, infatti, a restare ancorata a un presente mitico o a un passato idealizzato, in cui sopravvive il senso di onnipotenza infantile, ovvero la tendenza a realizzare i desideri, diversamente insoddisfatti, in un mondo separato. Il mondo della baby gang è, infatti, caratterizzato da una struttura fortemente gerarchica e da regole rigide, a volte violente, che servono a dare sicurezza e punti di riferimento agli affiliati, regole che, però, sono tipiche di uno stile di vita ancora immaturo.
Per la sociologa Maryse Esterle-Hedilbel, invece, la banda giovanile contemporanea è una forma di socializzazione, una sorta di termometro sociale: un tentativo dei giovani di “prendere posto” in un vuoto sociale ed educativo,” una ricerca di punti di riferimento in una società dove nulla di ciò che è stato previsto gli si confà”.
Termometro di malessere diffuso
In questa chiave di lettura, la comparsa delle bande è un riflesso eloquente della crisi delle relazioni di questo tempo. D’altro canto, la società adolescenziale non è più soltanto il luogo dell’apprendimento competitivo tra pari ma anche (e sempre di più) il mezzo di cui dispone tutta una classe d’età per farsi notare dagli adulti. Produttori di grafiti, pattinatori metropolitani, rapper, manifestanti, bande criminali ecc. formano, così, un immenso gruppo sociale che aspira al riconoscimento pubblico. Un gruppo determinato a farsi sentire, anche con la violenza, che assume valore di linguaggio e di avvertimento. Linguaggio di coloro che non hanno potere verso coloro che ne hanno. Avvertimento lanciato da chi si sente escluso verso chi è integrato.
Per questo occorre guardare con molta attenzione al mondo degli adolescenti, poiché essi sono gli eccellenti rivelatori delle disfunzioni del mondo degli adulti, esacerbandone i difetti, le incertezze e gli insuccessi.
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