È la mente a forgiare gli strumenti del linguaggio o è il linguaggio a delineare i confini del nostro mondo e della nostra esperienza mentale? Ne parla Ludwig Jäger, docente di filologia germanica presso il Dipartimento di scienze filosofiche del Politecnico della Renania-Westfalia ad Aachen, in un articolo pubblicato nel 2003 nel n. 5 della rivista di neuroscienze e psicologia Mente&Cervello (oggi Mind) dal titolo “La parola crea il mondo”, in cui riporta alcune tra le teorie più accreditate e le evidenze degli studi in materia.
Il linguaggio e il pensiero
Fino a pochi decenni addietro, diversi studiosi ritenevano che il linguaggio e il pensiero fossero funzioni del tutto separate e indipendenti tra loro. Secondo questi punti di vista, ormai abbandonati alla luce delle recenti scoperte, la mente sarebbe stata composta da funzioni proprie e il linguaggio non avrebbe alcuna influenza sui processi cognitivi. Se oggi persistesse una convinzione simile, la comunicazione umana altro non sarebbe se non un semplice invio di messaggi ad altri soggetti. Ovvero, persisterebbe la convinzione che, anche in assenza di sviluppo del linguaggio, le funzioni cognitive superiori potrebbero restare intatte. La conquista del collegamento tra cognizione e linguaggio, oggi dimostrata, è stata, invero, tutt’altro che semplice ma è essenziale per comprendere in che senso la parola plasmi la realtà. Ecco, allora, alcuni interessanti contributi in questa direzione.
La prospettiva cognitivista
Che il linguaggio fosse più di un semplice mezzo di comunicazione ma, piuttosto, un creatore di mondi era, dunque, già una conquista della linguistica XIX secolo, secondo cui non esisteva una realtà predefinita e uguale per tutti, né una sua rappresentazione indipendente da cultura e lingua. Wilhelm Von Humboldt, linguista e politico tedesco dell’Ottocento, ad esempio, era sicuro dell’enorme potere della comunicazione. Nasce da qui l’idea che la parola sia “l’organo costitutivo del pensiero”. Egli dedicò la sua vita allo studio delle lingue di diverse culture, raccogliendo una gran quantità di materiale empirico che gli permisero di arrivare alla conclusione che “le differenze tra le lingue non si limitano a mere differenze di segni. Le parole e le strutture grammaticali formano – e in effetti determinano – concetti. In ultima analisi, le diverse lingue costituiscono diverse visioni del mondo”.
Secondo la prospettiva cognitivista, che si sviluppa di lì a poco e che ha in Von Humboldt uno dei precursori, lo sviluppo del linguaggio e delle altre capacità mentali si svolge in modo parallelo nei primi anni di vita. Da questo punto di vista, molti processi mentali vengono modulati dal linguaggio, ragion per cui alcuni sono inimmaginabili senza il contributo di quest’ultimo.
Oggi, i sostenitori della teoria cognitivista del linguaggio individuano tre ragioni a supporto delle reciproche influenze tra lo sviluppo del linguaggio e del pensiero:
- il linguaggio agisce sulla mente attraverso strutture lessicali e grammaticali che rappresentano la prima forma di classificazione della realtà;
- esiste una natura sostanziale della lingua, vale a dire un’intrinseca differenza tra lingua parlata, scritta, dei segni, ecc. che è tipica di ogni cultura;
- ogni lingua possiede una struttura profonda che caratterizza il popolo che la parla.
A questo ultimo livello si determina se il linguaggio costruisca la realtà o se si limiti a fornire un’immagine più o meno fedele della stessa.
La parola che plasma la realtà
Attualmente, l’idea che il mondo sia plasmato dalle parole, dopo alcune battute d’arresto, ha riconquistato terreno. Per i sostenitori del cognitivismo, l’influenza del linguaggio va oltre il semplice vocabolario, attraverso il quale organizziamo concettualmente la realtà e la grammatica. La materialità stessa dei segni linguistici, ovvero dei codici parlati, scritti o gestuali, ha effetti differenziali sulle strutture mentali e sulle visioni del mondo dei parlanti di una determinata lingua.
Walter Ong, professore di retorica presso la Saint Louis University, ha lungamente sostenuto che il passaggio da una cultura orale dominante a una cultura scritta ha trasformato in profondità i modi di pensare, risolvendo il continuum tra mito, pre-logica e una visione razionale del mondo. Tuttavia, le premesse di Ong sono oggi ritenute superate, almeno nella loro versione radicale.
Molte delle strutture organizzative e delle competenze cognitive, che ci si aspetterebbe siano caratteristiche delle società alfabetizzate, sono, infatti, presenti anche in società primitive prive di scrittura. Ciò ha fatto vacillare uno dei principali presupposti di Ong, ovvero che la memoria culturale delle società non alfabetizzate sia astorica, probabilmente omeostatica. Anche le culture non alfabetizzate dispongono, infatti, di meccanismi per stabilizzare le tradizioni e permettere la loro continua trasmissione.
I concetti
Il tema delle origini del linguaggio va visto non solo da un punto di vista psicologico e filosofico ma anche biologico e teorico. I sostenitori del neodarwinismo, ad esempio, sostengono che il linguaggio, le strutture cognitive e la coscienza si siano sviluppati parallelamente del corso dell’ominazione. Il paleoantropologo Andrè Leroi-Gourhan afferma, in proposito, che un fattore determinante per la genesi del linguaggio e lo sviluppo della mente umana sia stato l’assunzione della posizione eretta e la conseguente espansione della volta cranica appoggiata sulla colonna vertebrale.
In questo capolavoro evolutivo, i nostri cervelli hanno dovuto sviluppare un’abilità fondamentale per classificare gli oggetti nel loro ambiente utilizzando un nuovo tipo di stimolo: i concetti (di primo grado o di primo ordine), informazioni che si riferiscono direttamente ai segnali sensoriali. Per esempio, un predatore può percepire la presenza di una preda semplicemente con l’olfatto. In altri casi, gli animali raccolgono e integrano informazioni da diverse fonti sensoriali, come l’odore, il colore, il tipo di movimento.
Accanto ai concetti di primo grado, ve ne sono altri che vengono definiti di secondo grado o di secondo ordine. Ad esempio, l’essere umano può manipolare mentalmente gli oggetti, pensare “offline”, grazie alla coordinazione di schemi percettivi e concetti verbali, in una rete di concetti linguistici che lo distinguono da felini e scimmie. Tali concetti, detti di secondo grado o di secondo ordine, naturalmente, si riferiscono a un concetto di primo ordine, dando vita all’associazione di idee complesse.
I programmi paralleli
I concetti di secondo ordine permettono, inoltre, di avere rappresentazioni duali o programmi paralleli: concetti “online”, azioni in corso e cose immaginabili che vengono elaborate e coesistono simultaneamente nella coscienza.
La distinzione stessa tra consapevolezza online e offline alimenta l’autocoscienza egocentrica: pensare di essere il pensatore, a posteriori (cioè offline) porta l’Io a identificarsi come fonte delle proprie azioni.
L’efficienza manipolativa dei concetti si amplifica con la creazione di reti e concetti. Secondo Derek Bickerton, linguista dell’Università delle Hawaii, queste reti rappresentano un insieme di posizioni mentali che custodiscono l’intero sapere verbale corrispondente a specifici concetti. Questa conoscenza è globale e questi depositi di sapere emergono proprio dalla creazione di concetti linguistici: la parola “gatto”, ad esempio, evoca in noi l’immagine degli occhi di un gatto al buio, passi silenziosi, sette vite, ecc.
La tesi di Rizzolatti
Oggi queste affermazioni ci possono sembrare scontate ma dovremmo ricordarci che tutto è cambiato nel volgere di pochissimi decenni. Giacomo Rizzolatti, il neuroscienziato italiano che ha legato il suo nome alla scoperta dei neuroni specchio, le cellule specializzate nel consentire di speculare un’azione motoria attraverso la mera osservazione (scoperta avvenuta negli anni ’90 dello scorso secolo), ha formulato una tesi sull’evoluzione del linguaggio secondo la quale la capacità di organizzare gesti o suoni per comunicare sarebbe emersa da un contesto in cui i simboli dovevano essere collegati a operazioni manuali. Se l’ipotesi dei neuroni specchio è valida, allora i concetti sorgono dall’interazione e dalla comunicazione con gli altri.
Questo spiega perché alcuni elementi fondamentali della nostra mente si sviluppano solo attraverso l’utilizzo comunicativo del linguaggio. E perché, in definitiva, viene comunemente attribuito al linguaggio il potere di plasmare la realtà.
Di conseguenza, se comunicare bene è scegliere le parole migliori per assegnare una bella forma alle idee, ai progetti ed al mondo intorno a noi, val la pena di chiedersi se non vi sia una correlazione tra tante brutture ed un linguaggio sciatto, capace solo di realizzare le più nefaste profezie.
Perché, allora, si dice che la parola plasmi la realtà? Semplicemente perché lo dicono le neuroscienze.
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