Quale immagine costruisce di sé un bambino con disturbo specifico dell’apprendimento, se l’insuccesso scolastico e il senso di fallimento che egli sperimenta nel contesto didattico minano le fondamenta della sua autostima? Se alla base della costruzione della personalità c’è la gratificazione correlata al rendimento tra i banchi, appare chiaro quanto le difficoltà nella letto-scrittura e nel fare di calcolo, più o meno diagnosticate, incidano sul futuro di una parte della popolazione studentesca, tanto in relazione alla prosecuzione degli studi oltre gli anni dell’obbligo, quanto nella vita professionale. Vediamo.
Lo stile attributivo
La convinzione dell’incapacità percepita e la conseguente frustrazione (che, in molti casi, porta all’abbandono scolastico o ad evitare i contesti d’apprendimento) acuiscono, infatti, la sensazione d’inadeguatezza del bambino, scambiata, fino all’intervento di esperti che ne certifichino le cause, per insufficiente impegno, svogliatezza, facile distraibilità durante le lezioni in classe e scarsa attenzione nello svolgimento dei compiti scolastici da casa.
Prima che intervengano dei programmi individualizzati, quello che accade in casi del genere è la modificazione dello stile attributivo della persona con DSA, la quale finisce, appunto, per attribuire alla fortuna o al caso un successo scolastico (ad esempio, si convincerà di essere stata agevolata da un compito facile) e alla propria incapacità un insuccesso. Esattamente il contrario di quello che accade con studenti non-DSA, i quali attribuiscono al proprio impegno i risultati scolastici brillanti e alle congiunture sfavorevoli casuali gli eventuali intoppi.
Che un simile bias attributivo dei bambini con DSA sia generalizzato anche a situazioni non scolastiche (e alla vita adulta) non è dimostrato da nessuno studio. Tuttavia, è una conclusione plausibile, trattandosi di persone che sviluppano, per le ragioni appena descritte, un locus of control esterno.
Autostima e apprendimento
Uno studio condotto da Chiara Valeria Marinelli, Giuseppe Romano, Isabella Cristalli, Alessandro Franzese e Gloria Di Filippo, pubblicato nell’Ottobre 2016 nel Vol. 13 n. 3 della rivista Dislessia delle Edizioni Erikson con il titolo italiano di Autostima, stile attributivo e disturbi internalizzanti in bambini dislessici, spiega, infatti, che il rapporto tra DSA e concetto di sé accademico è mediato proprio dal locus of control che determina lo stile attributivo di chi riceve diagnosi di dislessia.
E che ha, quindi, conseguenze significative sulla riuscita scolastica, sull’autostima e sul benessere emotivo. Vale a dire che, se l’attribuzione degli insuccessi a se stessi e alle proprie persistenti incapacità è, da una parte, un acceleratore degli stati d’ansia e delle sensazioni di fallimento e frustrazione, dall’altra, essa agisce negativamente anche sulla motivazione e sull’impegno che vengono minimizzati e, appunto, attribuiti a fattori esterni come gli sporadici e fortuiti successi. Il che, peraltro, sposta la motivazione da presunta causa dell’insuccesso a inevitabile conseguenza.
Verosimile, dunque, che, se non individuati, accolti e compresi, i disturbi specifici dell’apprendimento possano degenerare in patologie di natura depressiva con esordio precoce ma destinati a divenire più severi in età adulta. Lo studio italiano indaga, dunque, il sistema attributivo e l’autostima dei bambini dislessici, inclusa la possibile comorbilità con sintomatologia ansioso-depressiva, attraverso l’uso di strumenti meno influenzabili dal bias collegato alla routine scolastica.
L’autostima corporea
Le prove individuali, somministrate dallo sperimentatore in classe su 41 bambini con dislessia evolutiva hanno fatto registrare, tra gli altri dati non utili alla presente trattazione, scarsa autostima in tutti i domini, generale e scolastica (soprattutto nelle bambine con dislessia), con esclusione dell’autostima corporea.
Il che, a mio parere, costituisce un’importante indicazione per il trattamento della dislessia e dei DSA in genere, al fine di elevare gli apprendimenti mediati dal corpo e l’autostima scolastica, quali agenti di prevenzione (primaria o, più facilmente, secondaria, nel caso dei bambini, quando non di riabilitazione dei DSA negli adulti) dell’ansia, della depressione e dei disturbi da deficit dell’attenzione: mediare gli apprendimenti con l’uso del corpo per accrescere l’autostima e per contrastare l’insorgenza di comorbilità con altre patologie.
Come vanno letti, infatti, i dati della ricerca italiana (che, per inciso, confermano quelli condotti da Waheeda Tabassam e Jessica Grainger nel 2002 presso l’Università Wollongong di New South Wales, in Australia, in relazione alle emozioni negative esperite dai bambini con DSA ed al loro inadeguato concetto di sé rispetto ai bambini normolettori), se non nella direzione di agire sulle risorse preservate, consolidandole per poi approdare agli apprendimenti scolastici? Per di più, il potenziale del corpo, al livello del quale non si rileverebbero, stando allo studio, inibizioni a livello di autostima, offre enormi opportunità di lavoro per il trattamento dei disturbi dell’apprendimento.
Apprendimento e gioco
Dall’osservazione della postura, come nel caso dei bambini disgrafici che appaiono accasciati sul foglio, possono emergere indicazioni molto utili per il trattamento, come usare il gioco del rilassamento e altre tecniche creative (le tecniche di mindfulness, psicoanimazione e arti terapie si prestano benissimo al caso) per indurre una modificazione funzionale degli atteggiamenti rigidi e bloccati che tradiscono le emozioni negative esperite nel corso dell’apprendimento.
Al contrario, le tecniche
- di meditazione e respirazione, basate sull’immaginazione guidata dall’educatore,
- di rilassamento muscolare, come l’automassaggio, il massaggio di coppia, l’apertura e la chiusura alternata delle mani,
- di arti terapie e creative in genere, come disegnare le lettere e le parole con un dito nell’aria a tempo di musica (per allentare la pressione della scrittura), sulla schiena del compagno o con il corpo sul pavimento o a passo di danza
aiutano i bambini a non sentirsi giudicati, a sperimentare il piacere e le emozioni positive di un apprendimento ludico, diverso da quello che solitamente viene percepito come frustrante, a vivere una condizione di benessere in un contesto e con figure che spesso appaiono ostili e a scoprirsi finalmente “capaci di fare”. Esattamente come gli altri compagni di classe. Con ottimi risultati, sia in età prescolare che scolare, sul piano dell’autostima.
Il che, gradualmente e con il tempo (e con il sostegno dell’intera holding educativa, fatta di famiglia, insegnanti e istituzioni), aiuta il bambino a modificare le sue prospettive di auto-valutazione e le sue aspettative, contribuendo a liberarsi dalle etichette. Avere un giudizio positivo di sé è strumento di autoefficacia, motivazione, curiosità e interesse che investe non solo l’area scolastica ma ogni ambito di vita, funzionale allo sviluppo della personalità e alla strutturazione della sua identità.
Il corpo impara prima
Lo scienziato portoghese naturalizzato americano Antonio Damasio, con la sua teoria dei marcatori somatici, spiega che il corpo apprende prima e che la cognizione arriva un attimo dopo. Vuol dire che l’empatia, l’intelligenza emotiva, la qualità delle interazioni e della socializzazione, la consapevolezza corporea, la motivazione e l’autostima sono i fattori trainanti di qualunque apprendimento, poiché dipende dalla relazione. A maggior ragione in presenza di soggetti fragili. Senza attendersi che essi si adattino agli insegnamenti, specie nel caso dei DSA, è, infatti, indispensabile una didattica flessibile, creativa, non stereotipata, che renda possibile l’attivazione di processi cognitivi come memoria, attenzione, imitazione, concentrazione, ascolto, problem solving, triangolando il raggiungimento degli obiettivi attraverso i talenti individuali e le risorse sane.
È solo così che lo studente con DSA, considerato nella sua totalità e non in funzione del deficit funzionale che gli viene diagnosticato, può superare i limiti imposti dalle sue difficoltà di apprendimento e acquisire e consolidare le competenze deficitarie, come il linguaggio, il pensiero matematico o la scrittura.
Resta da chiedersi se la scuola, il luogo in cui i bambini trascorrono buona parte della loro giornata, possa flessibilmente adeguare la didattica tradizionale alle necessità di una popolazione studentesca ormai molto eterogenea, in nome dell’inclusività che, il più delle volte, è, purtroppo, più teorica che effettiva. E che trova il limite nella formazione del corpo docente nelle metodologie innovative e inclusive d’insegnamento e d’apprendimento che invertano la rotta segnata dalla diagnosi di DSA. La sfida dell’autonomia è appena iniziata e passa, necessariamente, dal rinforzo strategico dell’autostima per consegnare alla società adulti responsabili ed efficaci.
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