L’ottimismo é un’arte di vivere che fa bene alla mente e al corpo. Ma è una conquista, non uno sprovveduto atteggiamento, aprioristico e ingenuo, verso le cose della vita. Cioè, non esiste ottimismo senza consapevolezza dei limiti e, dunque, senza esperienza del suo opposto. Per molti è solo un’illusione psicologica che rende le persone realistiche e perfino pessimiste più affidabili dei ridicoli ottimisti, spesso poco razionali e troppo speranzosi, nonostante numerosi studi dimostrino che l’ottimismo non é necessariamente sinonimo di entusiasmo forzato né di negazione della realtà. Eppure, secondo l’antropologo canadese-statunitense Lionel Tiger, l’ottimismo si aggancia alla speranza, altro stato d’animo a cui la psicologia positiva di Martin Seligman affida un ruolo determinante nell’indirizzare la vita, la condotta e i risultati delle persone, nel senso che va considerato come la condizione o l’umore che si accompagna all’attesa di un futuro desiderabile: gli ottimisti, in altre parole, sono convinti che le proprie azioni avranno conseguenze positive. E che, per contro, in talune situazioni, difficili e senza soluzione, quelle in cui si direbbe che nessuna decisione possa influenzare l’avvenire, agire non serve a nulla. In simili circostanze, gli ottimisti credono che, per preservare il benessere personale, convenga risparmiarsi lo sforzo e la grande conseguente dose di sofferenza e frustrazione.
Ottimisti e pessimisti
La vita, naturalmente, non opera distinzioni e riserva le medesime avversità, tanto agli ottimisti quanto ai pessimisti. Ma i primi riescono a venirne fuori a testa alta per via dell’approccio concreto, positivo, armonico, appassionato, creativo, proattivo, costruttivo, dell’adattabilità e del tempismo. I pessimisti, infatti, sembrano essere rallentati da un atteggiamento tendenzialmente arrendevole, dimesso, passivo e distruttivo al limite della depressione.
Il pessimismo, in ogni modo, ha un suo ruolo nella società e nella vita delle persone, dal momento che aiuta a valutare accuratamente la realtà, fornendo indicazioni utili sugli ostacoli da superare e sul livello di coraggio che bisogna possedere per perseguire i valori fondanti.
In questo senso, una sufficiente dose di pessimismo è utile anche agli ottimisti per valutare meglio la realtà, anche se tra pessimisti e ottimisti di fondo c’è una differenza sostanziale. Ad esempio, i pessimisti sono caratterizzati da una affettività negativa, da stress, introversione e bassa autostima, mentre gli ottimisti sono animati da affettività positiva, estroversione, leggerezza di spirito e buona autostima.
C’è ottimismo e ottimismo
Naturalmente, occorre guardarsi dall’ingenuo ottimismo e puntare a sviluppare un ottimismo flessibile. Pensare, infatti, che il mondo in cui viviamo sia migliore di quanto realmente non sia e che il futuro ci riservi esclusivamente delle sorprese positive non ha nulla a che vedere con il sano ottimismo; anzi, corrisponde ad avere una visione parziale e artefatta del reale intorno a noi. Voler vedere a tutti i costi solo il lato positivo delle cose, ignorando ciò che positivo non è, in altre parole, traduce l’idea di ottimismo in ottusità, una distorsiva negazione della realtà.
In proposito, gli psicologi statunitensi Charles Carver e Michael Scheier, che hanno esaminato questa tesi nelle loro analisi statistiche, spiegano che la ragione del successo degli ottimisti risiede nel fatto che essi affrontano i problerni usando strategie che prescindono dal livello di felicità di base. Ovvero, gestiscono le situazioni difficili industriandosi per risolverle, senza rifuggire da esse o negando l’esistenza dei problemi, come si sarebbe semplicisticamente portati a pensare, ritenendo che gli ottimisti si affidino un po’ troppo alla speranza nel futuro, ignorando le difficoltà.
Il bicchiere mezzo pieno
Ma come mai alcune persone vedono naturalmente il bicchiere mezzo pieno, mentre altre non possono impedirsi di vederlo mezzo vuoto? In verità, si sa molto poco sulle differenze neurobiologiche tra ottimisti e pessimisti, dal momento che il campo di indagine delle neuroscienze positive è ancora tutto da esplorare, anche se gli studi fin qui disponibili confermano che essere ottimisti è una cosa positiva. Gli psicologi hanno però identificato diversi fattori che influenzano lo sviluppo dell’ottimismo.
- Normalmente, al primo posto ci sono i fattori genetici. Tuttavia, anche se non esiste la certezza che i genitori possano trasmettere un gene dell’ottimismo, sembrerebbe su di esso agiscano i geni dell’intelligenza e della bellezza, che sono certamente ereditari. I geni materni sono, in ogni caso, i principali indiziati, dipendendo dalla madre l’eredità dell’emozione di fondo di un bambino ed essendo l’ottimismo legato alle funzioni emotive della persona.
- Poi c’è l’educazione. Oltre ai genitori, infatti, gli insegnanti hanno una notevole influenza sullo sviluppo dell’ottimismo. Carol Dweek, ad esempio, ha osservato come i giudizi, le valutazioni e i commenti degli insegnanti influenzino il modo in cui i bambini valutano se stessi e il proprio lavoro. In uno studio del 1992, Dweck e colleghi hanno rilevato che le critiche dei maestri agli alunni della scuola materna contribuivano alla loro demotivazione, ad incrementare l’auto-svalutazione e le emozioni di frustrazione e tristezza.
- Anche i media esercitano un’influenza importante sull’ottimismo. Alcuni programmi televisivi diffondono spesso, infatti, immagini di impotenza, presentando ai bambini (ma anche agli adulti) un mondo pericoloso in cui essi si sentono minacciati, impotenti e senza alcun controllo sugli eventi. Secondo gli esperti di psicologia positiva, i media potrebbero esercitare un discreto ruolo educativo, aiutando le persone a diventare più autonome, ottimiste e resilienti. Ottimismo e pessimismo sono, infatti, tratti della personalità piuttosto resistenti. L’ottimismo, in tal senso, può essere sostenuto e rinforzato da alcune pratiche a cui possono contribuire anche gli strumenti pensati per l’intrattenimento di massa.
Ottimismo e intelligenza emotiva
L’ottimismo, dunque, può essere appreso o accresciuto. La terapia cognitiva, ad esempio, insegna alle persone ad adottare modalità costruttive d’interpretare la realtà, come la pratica autobiografica creativa, su cui è incentrato il mio lavoro sull’intelligenza emotiva, spiega come incontrare le zone buie, laddove si nascondono i presunti limiti, pacificare il rapporto con le aree di inefficacia e trasformarle in opportunità di evoluzione e crescita. La qual cosa accomuna in parte i due approcci.
Secondo il padre della terapia cognitiva, Aaron Beck, infatti, le persone depresse (tendenti al pessimismo, dunque) interpretano ciò che succede loro attraverso distorsioni cognitive negative (e coerenti loop emotivi ad esse associati).
Il ruolo del terapeuta (che diventa il facilitatore o il conduttore nei gruppi di formazione e di crescita personale con le tecniche del Metodo Autobiografico Creativo per l’intelligenza emotiva) consiste, in questo caso, nell’aiutare le persone a riconoscere le distorsioni cognitive e le dissonanze emotive, al fine di modificare il modo di pensare gli stessi accadimenti. La consapevolezza che ne deriva offre nuovi punti di vista, attenua gli effetti del pensiero negativo e, in alcuni casi, lo azzera del tutto.
La psicologia positiva
Altri approcci (che possiamo definire di tipo misto, che sfruttano simultaneamente la forza della cognizione e delle emozioni) sono in fase di elaborazione per aiutare i pessimisti a modificare la propria visione del mondo.
Il pioniere della psicologia positiva, Martin Seligman, Karen Reivich, Direttrice del Programma di Formazione del Centro di Psicologia Positiva dell’Università della Pennsylvania, e Jane Gillham, Ricercatrice della Facoltà di Psicologia dell’Università di Princeton, ad esempio, hanno messo a punto il Penn Resiliency Program, un programma in dodici sessioni per aiutare gli adolescenti a sviluppare l’ottimismo.
Tale programrna può essere, a giusto merito, annoverato tra le pratiche tese a sviluppare intelligenza emotiva nei più giovani, poiché insegna a riconoscere i legami che intercorrono tra cognizione ed emozioni e come fare per adottare spiegazioni più costruttive di fronte a situazioni difficili. Il programma, condotto contemporaneamente negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Cina, ha dimostrato l’efficacia dell’intervento nei diciassette studi condotti dall’equipe di Seligman.
Nuovi orizzonti di ricerca
Benché oggi siano ancora poche le informazioni sul modo in cui l’ottimismo influenza la neurobiologia del cervello, tuttavia disponiamo di studi pionieristici che suggeriscono che il cervello degli ottimisti funzioni in maniera diversa. In uno studio del 1997 di imaging cerebrale tramite fRMI (risonanza magnetica funzionale), il team di Tali Sharot, neuroscienziata di origini israeliane e professoressa di neuroscienze cognitive all’University College di Londra e al MIT, ed Elizabeth Anya Phelps, neuroscienziata cognitiva famosa per le sue ricerche sull’intersezione tra memoria, apprendimento ed emozioni, nonché docente di neuroscienze umane del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Harvard a Pershing Square, ha dimostrato che l’ottimismo è associato a un’attivazione rafforzata di corteccia cingolata anteriore rostrale e amigdala, due aree coinvolte nelle emozioni.
Altre ricerche spiegano che l’ottimismo agisce positivamente sul funzionamento neuroendocrino, riducendo la produzione di cortisolo, l’ormone dello stress e dell’ansia prodotto dalle ghiandole surrenali. Il che ricollega l’ottimismo al benessere, condizione in cui la persona che vive normalmente se stessa come un corpo semovente all’interno di confini tracciati dall’educazione e dalla cultura impara a conoscersi meglio, grazie alle pratiche presentate, e a dotarsi di un nuovo e più funzionale set di abilità cognitive.
Si direbbe proprio che vedere il bicchiere mezzo pieno abbia davvero i suoi bravi vantaggi.
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