Una delle più grandi commodity prodotte dal genere umano è credere che il male dipenda sempre da qualcosa di esterno a noi. A consolidare tale convinzione concorrono le implicite contraddizioni della sua natura: il connubio di impotenza e competenza, la poca tolleranza e accettazione degli altri che stride con il presunto buonismo di fondo, la vergogna dell’incompiutezza opposta al mito di perfezione, tutte condizioni umane coesistenti che incitano all’instabilità e al vacillamento morale.
Emilio o dell’educazione
Rousseau, nell’Emilio, la più significativa opera dello scrittore, filosofo e pedagogista francese dedicata alla formazione, sul finire del Settecento aveva già anticipato la risposta individuando nel bambino il desiderio di schiavizzare i genitori: più nello specifico, il germe dello spirito gerarchico.
Sebbene non li consideri cattivi per natura, Rousseau capisce che la debolezza e la dipendenza assoluta dei bambini dia vita a una dinamica che porta ad alterazioni etiche e comportamenti crudeli, nei quali narcisismo e tendenza a prevaricare convergeranno in una direzione più produttiva. Quando, però, il bambino comprende di non poter portare a termine il suo piano di soggiogare alla sua onnipotente volontà i genitori, compare in lui la vergogna dell’impotenza e della sua fallibilità.
La vergogna e il disgusto
Quest’emozione, definita vergogna primitiva, anticipa la comparsa di una seconda emozione: il disgusto che il piccolo sperimenta quando, davanti alle sue stesse deiezioni, scopre l’animalità, la mortalità e l’impotenza di fondo della condizione umana. Dalla vergogna primitiva, con il disgusto di sé, emerge anche il desiderio impellente di compiutezza che durerà per sempre, fino a quando egli non capirà di essere un adulto tra adulti limitati e bisognosi.
Tuttavia, quel disgusto, evolutivamente salvifico in quanto mezzo per evitare i pericoli dovuti al cibo avariato, avendo natura istintiva e cognitiva al tempo stesso, non può essere orientato a lungo contro di sé. Allora, soprattutto dopo lo scontro con il narcisismo dell’infanzia, che rende inammissibile qualunque critica all’Io, viene dirottato sugli altri, diventando disgusto protettivo.
Ecco che le emozioni che il bambino prova verso se stesso e che sono implicate nel ripudio di sé si dirigono irreversibilmente verso sottogruppi di cattivi, diversi, contaminati, sporchi, omosessuali e impuri, nei confronti dei quali si produce il principio di esclusione tipico del mondo degli adulti. Perché gli aspetti cognitivi del disgusto e gli atteggiamenti tipici che vi sono associati i bambini li apprendono dai grandi. Per questo la formazione emotiva degli adulti è formazione alla cittadinanza attiva e ai principi democratici del vivere civile. Senza l’esempio dei suoi educatori e formatori elettivi, in altre parole, il bambino resta il vivente più dotato di empatia.
La strana empatia
Il risentimento nei confronti della propria debolezza dà, infatti, origine a un atteggiamento stigmatizzante che si risolve in profonde paure e, di conseguenza, in sofferenza. Alcune regole sociali e familiari accettano questa sofferenza, inculcando nei giovani il bisogno di consapevolezza del principio di vita secondo cui l’uomo è vulnerabile e mortale e che tale aspetto non deve essere né temuto, né odiato. Altre la rifuggono e diffondono modelli di purezza (noi siamo i puri, mentre gli altri sono impuri) e sopraffazione che alimentano la dipendenza da quegli stessi modelli.
Umberto Galimberti, psicologo italiano, in proposito, spiega che l’empatia si sviluppa in maniera naturale nei bambini a partire dai sette, otto anni, specialmente se i genitori dimostrano attenzione e sensibilità verso l’educazione alle emozioni. Il concetto di empatia è, infatti, strettamente collegato a quello di risonanza emotiva, quale stato d’animo che accompagna le azioni umane, definendole come buone o cattive. La guida in tal senso del genitore-educatore è, dunque, determinante.
Così, chi nell’infanzia non esperisce l’accoglienza ma, piuttosto, l’indifferenza o il rifiuto (normalmente, della madre) e non ha la possibilità di maturare un sufficiente grado di empatia (e, quindi, di sentire la sofferenza degli altri per la violenza che infligge loro) ha più difficoltà a distinguere il bene dal male e sviluppa il senso di colpa in modo insoddisfacente, perché non viene educato a questo.
La famiglia e l’empatia
Negli ambienti familiari emotivamente meno accoglienti, allora, il compito di educare ai sentimenti viene demandato al lavoro esclusivo della scuola (la quale, per inciso, non ritiene di dover assolvere a tale compito in sostituzione della famiglia), con le evidenti complicanze a livello di alfabetizzazione emotiva che si riflettono anche nella qualità delle relazioni che i ragazzi si porteranno nella vita adulta.
La capacità di empatizzare è, infatti, una componente fondamentale della comunicazione tra i membri di una collettività che innesca abilità sociali indispensabili come l’apprendimento attraverso l’osservazione e la comprensione dei bisogni e dei desideri degli altri. Questo fa, di conseguenza, dell’empatia, in quanto pensiero posizionale con ciò intendendo la capacità di immedesimarsi nell’altro, mettendosi nei suoi panni, un armonizzatore delle interazioni tra individui.
L’educazione emotiva
Essendo, tuttavia, i casi di analfabetismo emozionale i più diffusi nell’educazione occidentale dell’ultimo ventennio, lo sviluppo dell’empatia facilmente prende le preoccupanti derive egocentriche che distolgono, per ovvie ragioni, dall’altruismo, di cui la vera empatia è fondamento, e dai reali sentimenti degli altri.
Ciò rende oggi più difficile vedere l’altro come un fine e non come un mezzo per un tornaconto personale. Per questo è fondamentale l’educazione emotiva, la stessa che fa scoprire l’empatia, come indice di democrazia.
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