Al XIX Congresso Annuale di Artedo di Bologna, abbiamo realizzato l’Albero delle Paure. Corsisti, relatori e partecipanti occasionali hanno potuto esprimere incubi e timori attraverso una modalità di partecipazione collettiva e giocosa: lasciare post-it anonimi in modo da riempire l’immagine di un albero. Ciò che è emerso è di difficile interpretazione e fa molto riflettere su come siano forti i meccanismi che influenzano i nostri pensieri e su come prendano forma le nostre paure, trasferendosi dalla vaghezza dell’inconscio alla concretezza del conscio attraverso il linguaggio. Al di là delle paure ricorrenti, infatti, che rappresentano i luoghi di proiezione comuni (animali come serpenti e ragni), si fanno sempre più strada nuove forme di paura, molto personali, che possono andare dalla paura del buio a una proiezione di fantasie aggressive. La paura più ricorrente è quella della solitudine, dell’abbandono, che può essere manifestata anche attraverso la paura della follia umana o quella di perdere il cervello.
Le paure dei più giovani
Ho preso l’idea dell’Albero delle paure dall’articolo omonimo di Simona Argentieri, pubblicato nel n. 53 di maggio 2009 della rivista di psicologia e neuroscienze Mente&Cervello, in cui l’autrice racconta del medesimo esperimento condotto in occasione del Festival della Scienza di Genova 2008.
Nel capoluogo ligure hanno lasciato un post-it anche ragazzi e bambini. I messaggi che le giovani generazioni hanno lasciato da una parte fanno sorridere, dall’altra, però, sono il riflesso delle sensazioni di inadeguatezza che essi vivono davanti al sistema educativo corrente. Soprattutto, sono lo specchio del tempo, caratterizzato dalle difficoltà nell’impostare correttamente l’intervento educativo genitoriale, spesso costellato di problemi di comunicazione, o nello stabilire i limiti tra autorità e distacco o, addirittura, violenza.
Fa riflettere molto, tuttavia, il fatto che i più giovani non si sentano ascoltati nelle loro preoccupazioni e paure, dal momento che gli adulti tendono a negare e sminuire le sensazioni dei bambini o, per contro, all’iper-protezione dalle inevitabili difficoltà e ambiguità della vita. Perché entrambi sono atteggiamenti non consoni che, infatti, alimentano le tante paure dei più giovani che avranno un forte impatto sulle loro vite.
Educazione e paura
Educare, infatti, non significa schermare i figli dalle paure. Piuttosto, vuol dire favorire lo sviluppo di competenze e abilità utili ad affrontare la vita con i suoi imprevisti, allo scopo di realizzare pienamente se stessi. Scopo che si può raggiungere solo imparando a sopportare i dolori e le frustrazioni e tollerando l’attesa e le fatiche necessarie per realizzare desideri e progetti.
Per questo
- insegnare a riconoscere le emozioni,
- cercare di mediare fra le proprie esigenze e quelle altrui,
- ascoltarsi,
- trovare e praticare azioni che generano piacere,
- sopportare le delusioni,
cogliendo ciò che di buono la vita dona, nello sviluppo dell’intelligenza emotiva e delle capacità relazionali e sociali dei bambini, dei giovani e degli adulti è da considerare un bene di inestimabile valore.
Perché tutto questo rende liberi e autonomi. Cioè, questo insegna a pensare con la propria testa e a sentire col proprio cuore, in armonia con l’intera collettività. Se questo atteggiamento, aperto e critico, viene interiorizzato, esso contribuisce ad aumentare il rispetto di se stessi e degli altri, riducendo al tempo stesso ansie, sempre più diffuse tra i giovanissimi, preoccupazioni e disagio, terreno fertile di paure e fobie anche in età adulta.
Paure normali e patologiche
La domanda più interessante che ci è stata rivolta a Bologna, davanti alle tante paure emerse nell’esperimento dell’Albero, è se siano del tutto normali o se ci si debba preoccupare di essere così impauriti. Ovvero, quale sia il confine tra le sane paure, quelle che salvano, e quelle patologiche, quelle da considerare un campanello d’allarme di qualcosa di patologico. L’unica risposta possibile è che non è facile distinguere le une dalle altre. L’intensità dell’angoscia provocata dall’emozione può sicuramente essere utile a valutare se siamo in un caso o nell’altro, soprattutto in funzione dei differenti contesti. Ma non basta. Alcune persone, infatti, sviluppano un comportamento repulsivo al punto da chiudersi in casa, limitando le relazioni sociali, per via della costante sensazione di non riuscire a mettersi in salvo in caso di pericolo.
Per i giapponesi, questo fenomeno sociale, che vanta il poco invidiabile primato di un milione di casi nel Paese del Sol Levante e che da poco viene diagnosticato anche in Italia, ha il nome di hikikomori (letteralmente, stare in disparte). Anche se può sembrare assurdo, per gli hikikomori rimuovere gli stimoli che generano grande sofferenza e difficoltà è una risposta naturale. Bisognerebbe, piuttosto, concentrarsi sull’origine dell’inadeguatezza che si trova a vivere chi rinuncia a una vita normale, perché incapace di trovare altra soluzione o alternativa.
Del resto, il mondo l’ha sperimentato tutto questo in occasione della recente pandemia (che ci dicono non essere che la prima di una serie a venire) o come effetto delle incertezze legate agli esiti economici della guerra in Ucraina. La paura diretta, associata a quella indotta dall’allarmismo giornalistico, si è radicata nel pensiero delle persone, fino a diventare patologica per auto-riproduzione, amplificazione ed evoluzione. Così, oggi andare in tilt è più facile, poiché abbiamo tutti paure che un tempo non avevamo, per il piacere del nostro cervello che gode della tensione provocata dal pensiero caotico.
Paure immaginarie
La verità, come spiega nei suoi libri Giulio Cesare Giacobbe, è che, complice un’educazione, soprattutto emotiva, che non c’è più, da quando l’uomo vive in società organizzate e non corre più il rischio di aggressioni da parte di animali feroci, i pericoli veri (e le ansie e le paure che vi sono associate) si sono ridotti drasticamente, mentre sono aumentati quelli immaginari.
Significa che i pericoli si sono trasferiti dal mondo reale al mondo della mente e che, proprio per questo motivo, i nostri nemici si sono moltiplicati e, con essi, si sono amplificate le emozioni negative. Il punto è che questi nemici e mostri sono immaginari ma, al tempo stesso, sono diventati più pericolosi e numerosi di quelli reali con cui si misurava l’uomo delle caverne. Con una ulteriore particolarità: le paure immaginarie ritornano costantemente e i pensieri negativi si riproducono automaticamente e si ingigantiscono involontariamente. La conseguenza è che questo stato perenne di emergenza ci rende permeabili a nuove paure e indirizza il nostro pensiero e il nostro agire all’interno di un loop che può essere arrestato solo con un atto intenzionale.
Poiché, infatti, invece di perseguire la felicità, creiamo mostri minacciosi, frutto della nostra mente, che alimentano i pensieri negativi, la soluzione è indirizzare il pensiero in maniera differente per modificare gli stati d’animo. Gestire paure, ansie, preoccupazioni, dolore e rabbia è, in definitiva, possibile, se si sa come farlo.
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