Ogni esperienza, positiva o negativa, plasma la credenza intorno al modo in cui registriamo nella nostra mente quello che consideriamo normale. Non è un processo passivo ma di interazione tra ambiente e persona che filtra le informazioni: tutte quelle esperienze hanno, infatti, il potere di radicare le nostre convinzioni inconsce che definiamo credenze. Le esperienze, poi, hanno il potere di generare da zero un intero sistema di credenze, di modificarlo o di distruggerlo, a seconda del modo in cui una persona riesce ad affrontare il rischio di generalizzazione che vi è connaturato.
Credenze e generalizzazioni
Definiamo generalizzazione una credenza che nasce da un’esperienza limitata a poche situazioni che, tuttavia, viene assunta, inconsciamente, come verità applicabile all’intera categoria a cui essa appartiene.
Così,
- se veniamo attaccati da un cane, ci possiamo convincere che tutti i cani siano aggressivi;
- se la nostra esperienza con l’insegnante di inglese di nostro figlio non è positiva, facilmente ci convinceremo della pessima preparazione dell’intera categoria;
- se due persone di nome Valerio ci creano problemi sul lavoro, ci potremmo convincere di aver un karma negativo con chi porta quel nome.
Con il tempo, ogni generalizzazione si radica nella memoria inconscia e diventa parte integrante della persona.
Funzione salvifica delle generalizzazioni
Tuttavia, le generalizzazioni nascono nella nostra mente per una funzione salvifica, perché sono scorciatoie di pensiero che rispondono al bisogno della mente di risparmiare tempo ed energia, soprattutto rispetto alle cose pratiche di ogni giorno.
Quando, ad esempio, prendiamo la patente di guida, possiamo guidare qualsiasi auto, poiché tutte funzionano allo stesso modo. Perché è una cosa che abbiamo imparato e immagazzinato nella memoria. Anche le credenze, però, funzionano allo stesso modo. In fondo, si tratta pur sempre di informazioni apprese che richiamiamo alla memoria per reagire rapidamente a una sollecitazione.
Il problema sorge quando si cerca di applicare credenze e generalizzazioni a ciò che per definizione è unico, come le persone. Poiché tale applicazione è inconscia, si finisce per creare credenze limitanti intorno a se stessi, alle proprie capacità (se, ad esempio, un fallimento viene preso come generalizzazione dell’incapacità di fare una certa cosa) o agli altri (se, ad esempio, una relazione finita male, relazione in cui ci siamo sentiti sfruttati, crea una generalizzazione intorno al presunto modo utilitaristico con cui gli altri si rapportano a noi, alimentando in noi sentimenti di diffidenza nel prossimo).
Tutto questo finisce per influire sull’autostima, sulla fiducia verso il prossimo e sulla qualità delle relazioni.
C’è un fondamento scientifico che, legando gli apprendimenti di vita alla memoria, spiega questo.
Apprendimento e memoria
L’apprendimento e la memoria si fondano, infatti, sul collegamento dei neuroni a livello della sinapsi, grazie a particolari proteine che regolano questi essenziali punti di snodo. Secondo gli studi, nel cervello umano, nel corso della vita di un soggetto, si verificano tra i 100.000 e i 500.000 miliardi di sinapsi.
Tali punti di contatto, che collegano e coinvolgono miliardi di cellule nervose del cervello, sono il fondamento della memoria. I loro contatti si modificano costantemente e si adattano a nuove situazioni: su questo processo si basa l’apprendimento.
Per capire il fondamento dell’apprendimento e della memoria, Clara Essman e Amparo Acker-Palmer, ricercatori della Goethe University di Francoforte, in un articolo dal titolo I mattoni della memoria, pubblicato in Italia nel n. 78 del mese di Giugno 2011 della rivista di psicologia e neuroscienze Mente&Cervello, spiegano il funzionamento e la plasticità delle sinapsi, con particolare riferimento ai processi molecolari che consentono a una rete neuronale complessa di reagire con flessibilità ai cambiamenti e di creare continuamente nuovi punti di contatto.
Cervelli rigidi e cervelli flessibili
Le ricerche vertono in particolare su due gruppi di proteine, rivelatesi importanti nel controllo delle reti nervose, le efrine e i ricettori delle efrine (o EphR), molecole scoperte nel 1987 dal team di Hisamaru Hirai dell’Università di Tokyo. In base alla ricerca di Essman e Acker-Palmer, tali molecole sarebbero responsabili anche della flessibilità del cervello, ovvero si rivelerebbero utili per regolare la forza della trasmissione dei segnali nei contatti sinaptici.
Il che significa che una sinapsi, usata di frequente, entro un tempo determinato si consolida e reagisce con più forza. In questo caso, diverse molecole innescano cambiamenti biochimici e morfologici che durano nel tempo, migliorando o peggiorando la capacità di trasmissione.
Peraltro, già nel 1949, il neuroscienziato canadese Donald Olding Hebb aveva ipotizzato che le sinapsi modificassero nel tempo la propria forza di trasmissione. È l’ipotesi su cui si basa la regola di apprendimento hebbiana, valida ancora oggi, secondo la quale una sinapsi, se usata spesso, risponde più prontamente e in modo duraturo, distinguendo, in tal modo, il potenziamento dalla depressione, caratterizzata da una risposta neurale più debole.
Affrancarsi dalle credenze
Attraverso la formazione, quella che modella la mente e la collega al cuore, normalmente abbiamo l’enorme opportunità di correggere i paradigmi errati, ampliando la conoscenza formale e stabilendo i codici a noi più congeniali per approcciarci alla realtà.
Nasce così, nel bene e nel male, un rigore che lega la nostra conoscenza del mondo a quello che abbiamo imparato a scuola e all’università e, ancor di più, al modo in cui i nostri maestri ci hanno inculcato i saperi, ora rendendoci liberi e autonomi nel pensiero, ora rigidi e perfino manipolati (e inclini a cavalcare le credenze).
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