Come in uno specchio deformante, l’immagine che abbiamo di noi stessi è tutt’altro che realistica. I ricercatori David Dunning, Chip Heath e Jerry M. Suls spiegano nell’articolo dal titolo Immagine imperfetta, pubblicato nella rivista di psicologia e neuroscienze Mente&Cervello nel n. 23 del Settembre-Ottobre 2006, che tendiamo a sopravvalutare costantemente i nostri pregi e, per contro, minimizziamo i difetti. La qual cosa ci porta a produrre di noi stessi un’autoimmagine non del tutto vera o vera solo in parte. Per questo, osservarsi con distacco estetico, prerogativa del processo artistico spontaneo finalizzato alla pratica autobiografica creativa, permette di ridurre la naturale distanza esistente tra il Sé reale e il Sé ideale.
L’immagine imperfetta
Nell’arco della vita, spiegano gli autori dello studio, le persone prendono migliaia di decisioni in base alle capacità, alle conoscenze, alla personalità e alle caratteristiche morali che, in cuor loro, pensano di avere. Ma, in decenni di ricerche sull’autopercezione in relazione a diverse situazioni, gli psicologi hanno rilevato che l’autovalutazione attitudinale, nel migliore dei casi, ha un’attinenza modesta o addirittura scarsa con la realtà. Spesso, infatti, gli altri sono capaci più di noi di prevedere i risultati che potremo ottenere, dal momento che sappiamo poco di noi e che, solitamente, ci sopravvalutiamo (più spesso) o ci sottovalutiamo oltre modo.
Insomma, pensare di possedere capacità al di sopra della media è una conclusione che sfida qualsiasi statistica. Basi pensare che, nei test d’intelligenza e in altre attività pensate per mettere alla prova le performances delle persone, emerge che la percezione che un soggetto possiede della propria intelligenza ha una correlazione non superiore al 20-30% con la prestazione effettiva. Stessa percentuale media sull’autovalutazione del modo in cui si crede di riuscire a eseguire un dato compito o lavoro in azienda.
La visione gonfiata
Naturalmente, vi sono delle eccezioni: alcune persone sono, infatti, più autoconsapevoli e, quindi, più obiettive di altre. Ad esempio, negli atleti, grazie alle critiche degli allenatori (e di chiunque abbia una prospettiva esterna), la correlazione media è del 47%.
Nel regno delle complesse interazioni sociali laddove, viceversa, il feedback è più facile che sia sporadico e occasionale, spesso ritardato e ambiguo, la correlazione tende a essere molto più bassa, sfiorando un misero 4% per le autovalutazioni riguardanti competenze in ambito direttivo ed il 17% per quelle riguardanti le capacità interpersonali, una delle due dimensioni tipiche dell’intelligenza emotiva. Questo spiega perché, a volte, semplici conoscenti riescono a prevedere la qualità della prestazione di una persona meglio della persona stessa.
La visione gonfiata delle proprie competenze, delle proprie capacità e del proprio carattere è più comune di quanto non si pensi. È statisticamente dimostrato, per citare un esempio che ci colleghi al nostro discorso, che la maggior parte dei giovani creda di possedere innate capacità di leadership superiori alla media (solo il 2% si considera al di sotto della media). Quasi tutti, parimenti, ritengono di meritare di collocarsi tra le posizioni eccellenti in relazione alla capacità di interagire con gli altri, alcuni perfino tra i migliori in assoluto.
Errori di autovalutazione
Alla base di tali errori di autovalutazione c’è un’ampia gamma di meccanismi psicologici impossibile da elencare. Eppure, se ci limitiamo ai due degli errori più frequenti, come sentirsi sopra la media e pianificare le azioni con eccesso di ottimismo, è quasi pensabile di circoscrivere il nodo della questione a due temi di fondo.
- Il primo è che di solito non possediamo tutte le informazioni necessarie per una precisa e affidabile autovalutazione. Ci sono troppi fattori che non ci permettono di vedere obiettivamente il nostro rendimento o di prevedere come agiremo in futuro. Se, però, le informazioni le abbiamo, diventiamo abilissimi a ignorarle o a dare loro troppo poco peso per continuare a vedere di noi stessi quello che avevamo già deciso di vedere. In definitiva, vediamo le nostre capacità in maniera ingigantita, anche quando non possediamo le conoscenze e l’esperienza per valutare le personali competenze in confronto con quelle dei colleghi. Tra l’altro, sono proprio i più incompetenti a sbagliare più spesso la valutazione di se stessi. Molti studi hanno ormai dimostrato che gli incompetenti non hanno una grande consapevolezza dei propri limiti e delle proprie lacune.
- Il secondo tema riguarda la naturale inclinazione degli esseri umani a competere con gli altri, confrontandosi con loro ma concentrandosi esclusivamente e ottimisticamente su se stessi. Quando, infatti, si tratta di valutare le proprie capacità, paragonandole a quelle dei propri simili, gli individui diventano egocentrici, si concentrano anzitutto sui propri comportamenti e sulle proprie abilità, ignorando quelle degli altri. Per questo, paradossalmente, i giudizi basati sul confronto sono spesso poco oggettivi. Così, ad esempio, quando si gioca a una delle molte varianti americane del gioco del poker, si tende a scommettere di più se ci sono jolly nel mazzo, perché ci sono più possibilità che entrino mani buone. Ma i jolly non hanno simpatie e gli altri giocatori hanno le stesse probabilità nostre di pescare un jolly. Le previsioni sbagliate, di solito troppo ottimistiche, si fanno anche perché non si hanno le informazioni necessarie per fare pronostici più accurati e ci si fida troppo delle proprie emozioni. Ma l’intelligenza emotiva, soprattutto la sua componente dell’intelligenza intrapersonale, collegata al riconoscimento, alla gestione e allo sfruttamento delle emozioni, in natura, è meno diffusa di quanto si creda. In mancanza di tale capacità, fare previsioni se sono coinvolti fattori emozionali o istintivi può essere molto difficile per chiunque.
Conoscersi meglio è possibile?
La domanda, a questo punto, è: “Si può imparare a conoscersi meglio?” Come confermano gli stessi Dunning, Heath e Suls, la soluzione migliore è adottare un punto di vista esterno, anziché vedere le cose dell’interno. Chi vede le cose dall’interno, infatti, si fida troppo di quel che vuole vedere di sé, anche in relazione a comportamenti da assumere in situazioni future.
Adottare, invece, un punto di vista esterno significa cambiare posizione percettiva, porsi al di fuori della narrazione e osservarsi come si osserva un’opera d’arte al museo. Il che aumenta la quantità di dati su cui concentrarsi per migliorare la valutazione. La ricerca psicologica fin qui disponibile spiega, tuttavia, che l’autoconsapevolezza è merce rara nella stragrande maggioranza dei casi. I linguaggi analogici, come le tecniche artistiche che aggirano la logica con cui l’uomo si racconta a se stesso, in questo senso, sono lo strumento privilegiato per sviluppare una seconda immagine di noi stessi, quella autentica, che dipinga le sembianze di un individuo che è riuscito a farsi un’idea precisa dei propri talenti, delle proprie capacità, della propria personalità più vera.
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