Un’opera d’arte è in grado di smuovere i sentimenti dell’osservatore solo se i personaggi in essa raffigurati mostrano chiaramente i propri moti d’animo e se questi ultimi sono riconoscibili dal movimento dei corpi. Questo è quanto scriveva Leon Battista Alberti, architetto, poeta e umanista, nel 1400, il quale non nominava ancora l’empatia per il semplice fatto che il termine ancora non esisteva (bisognerà attendere Robert Vischer, studioso di arti figurative e di problematiche estetiche, che lo introdusse alla fine dell’Ottocento). Lo confermano anche gli ultimi studi di neuroscienze sulla natura della percezione estetica, che chiamano in causa i neuroni specchio, quelle cellule che, situate nel nostro cervello, si attivano alla vista del movimento altrui e ci permettono di immaginarne le intenzioni.
Empatia con l’opera d’arte
Questo significa che, nel momento in cui stiamo osservando un quadro o una statua, facciamo esperienza di empatia. Cioè, entriamo in risonanza con le emozioni che evocano le immagini, sperimentando gli stessi stati d’animo che prova chi è raffigurato nell’opera d’arte oppure, in alcuni casi, l’artista stesso, nel suo momento creativo
Vittorio Gallese, neurofisiologo dell’Università di Parma e membro del gruppo di ricerca guidato da Giacomo Rizzolatti, al quale si deve la scoperta dei neuroni specchio, spiega che diversi esperimenti hanno dimostrato che chi osserva un’opera entra in empatia con l’oggetto osservato.
Tale sentimento può essere semplice comprensione delle emozioni rappresentate oppure, più profondamente, un senso di imitazione delle azioni raffigurate che comporta l’immedesimazione dell’osservatore.
Le neuroscienze e l’empatia
Da questo punto di partenza inizia l’indagine della neurologia per comprendere pienamente l’innesco dell’empatia nell’esperienza artistica e quali meccanismi neuronali siano coinvolti nell’esperienza empatica. Le neuroscienze, nel frattempo, hanno dimostrato con le indagini strumentali che l’empatia non è puramente intellettuale ma passa attraverso il corpo.
Il che significa che, fissando un dipinto o una scultura, lo spettatore percepisce fisicamente ciò che vi è rappresentato e lo riproduce attraverso la contrazione inconsapevole di specifici gruppi muscolari, gli stessi che attiva il personaggio con cui si identifica. Il fenomeno è facilmente dimostrabile, così come è stato per giungere a queste conclusioni, attraverso la registrazione con tecniche di neuroimaging dei potenziali elettrici nei muscoli dell’osservatore, soprattutto quando osserva figure sbilanciate, ferite, mortificate nel corpo, schiacciate o fisicamente costrette.
È, in altre parole, spiega ancora Gallese, esattamente quello che accade nella vita reale, quando i neuroni specchio si attivano in risposta al movimento di un altro individuo, facilitandone la comprensione delle intenzioni e delle emozioni, attraverso l’imitazione e la riproduzione del gesto a livello della corteccia cerebrale.
Il sistema specchio
I neuroni specchio, a ogni buon conto, non si attivano soltanto guardando un movimento ma anche sentendolo raccontare. E possono indurre empatia anche di fronte a un’opera astratta o a un capolavoro architettonico. In assenza della figura umana, infatti, lo stimolo che attiva l’empatia è il movimento implicito nell’opera, nelle tracce di colore, nei tagli o nei colpi di scalpello sul blocco di marmo.
È, in altre parole, la direzione stessa della mano dell’artista, la sua intenzione, l’azione stessa di creazione a provocare la reazione emotiva dello spettatore. Un esempio in questo senso è la Pietà Rondanini di Michelangelo, il cui potere evocativo si concentra sulle tracce del punteruolo impresse sulla pietra non levigata.
Il senso di coinvolgimento fisico che quadri e sculture sono in grado di evocare, coinvolgimento su cui si basa l’approccio corporeo all’opera d’arte di cui parla Gallese, fu già messo in luce dal filosofo Maurice Merleau-Ponty durante la seconda metà del XIX secolo.
Imitazione del movimento e delle emozioni
Questo approccio fenomenologico, nella storia dell’arte, non ebbe, tuttavia, successo, al punto da venire accantonato nel XX secolo con la critica artistica, in favore di un approccio più cerebrale e privo di corporeità.
Le recenti scoperte dei neuroni specchio, responsabili dell’imitazione del movimento e delle emozioni, e sul funzionamento del cervello umano hanno restituito dignità all’approccio corporeo all’opera d’arte, chiarendo che l’imitazione si attiva nell’osservatore anche davanti a immagini statiche che rappresentano un’azione reale, un’azione potenziale, un’intenzione o un moto dell’anima.
Così, la vista di una mano che afferra un oggetto o che lo tiene saldamente risveglia le aree cerebrali motorie responsabili dell’azione di afferrare anche nell’osservatore.
Empatia e immagini inanimate
Ma non è tutto. Il sistema dei neuroni specchio si attiva anche in presenza di immagini inanimate. Questo perché ci sono oggetti afferrabili che scatenano l’attivazione non solo delle aree visive ma anche di quelle motorie, ad esempio quelle preposte alla prensione, come se il cervello si preparasse all’eventualità che l’individuo decida di interagire con essi.
Oggetti come frutta, abiti, giochi, gioielli, cappelli ma anche gli organi sessuali attivano, in setting sperimentali, la corteccia premotoria in una zona del cervello generalmente ritenuta responsabile del controllo delle azioni e non della rappresentazione di oggetti.
Il sistema specchio è determinante per la comprensione delle emozioni e delle sensazioni. Soprattutto al livello dei neuroni che si occupano del riconoscimento dei volti. Questo gruppo di neuroni, altamente specializzato, permette, infatti, all’osservatore, mentre ad esempio contempla un ritratto artistico, di assumere inconsciamente, con il proprio volto, l’atteggiamento del modello osservato. Il trasferimento per imitazione del comportamento corporeo consente una comprensione più profonda dei sentimenti del personaggio.
Il sistema di simulazione
Lo scienziato portoghese Antonio Damasio spiega perché, pur in presenza di imitazione empatica, l’emozione non viene agita direttamente. Quando, infatti, l’emozione attraversa il corpo, la risposta motoria viene bypassata da una sistema di simulazione. Cioè, il cervello simula l’attivazione motoria sulla mappa corporea rappresentata al livello della neocorteccia senza mettere effettivamente in moto la muscolatura.
- Lo spettatore, quindi, capta in modo automatico lo stimolo emotivo solo a livello precognitivo, cioè prima di essere totalmente consapevole. Ciò significa che l’esperienza di empatia con l’opera d’arte passa dal corpo attraverso un accesso precognitivo che solo in seguito, attraverso l’elaborazione cognitiva superiore, diventerà giudizio estetico finale, plasmato sulla base del contesto culturale in cui il soggetto è cresciuto ed è stato educato.
Le risposte automatiche costituiscono, dunque, solo il primo livello di reazione emotiva all’arte. Reazione che, solo pochi istanti dopo, verrà gestita e inibita dall’organismo sulla base di fattori culturali a cui il soggetto è più sensibile.
L’artista e gli scienziati
L’artista è, allora, colui il quale sa evocare o sfruttare, consciamente o inconsciamente, grazie al proprio talento, i meccanismi dell’empatia e sa usare la conoscenza del corpo per suscitare risposte emotive e motorie nello spettatore. Il che fa dell’arte un affascinante campo di ricerca da parte delle neuroscienze.
Restano ancora diversi punti oscuri su cui sono chiamati a far luce i neurofisiologi, spiega Daniela Ovadia, neuropsicologa cognitiva, autrice dell’articolo dal titolo Arte allo specchio, pubblicato nel n. 50 di febbraio 2009 della rivista di psicologia e neuroscienze Mente&Cervello. Ovvero,
- se il sistema imitativo corporeo colga, allo stesso modo, stati d’animo positivi e negativi;
- quali esperimenti possano essere messi in atto per capire se vi siano differenze tra la risposta empatica al movimento e la risposta agli oggetti nella vita reale e nella loro rappresentazione visiva;
- quale sia il ruolo e il significato dei colori nell’esperienza estetica.
Rispondere a questi quesiti non è solo un modo per far luce sul bisogno umano di fare arte e di goderne dei frutti ma anche di ipotizzare un uso terapeutico dell’arte stessa che si basi su solide basi scientifiche.
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