La curiosità è l’aspetto più importante dell’apprendimento perché denota un desiderio e una mancanza che l’azione può compensare. Anche la curiosità ha, tuttavia, le sue regole. Ossia dipende da come viene nutrita dall’ambiente, se esso invia sufficienti segnali di rinforzo che la alimentano e se incontra i talenti delle persone. Ciò significa che concettualmente la curiosità dipende da noi e dall’atteggiamento che abbiamo verso la vita ma, in molti casi, dipende anche dall’incoraggiamento che riceviamo dall’esterno, nel senso che, essendo collegata al sistema della ricompensa, molto dipende dai rinforzi e dalle punizioni. Pensiamo alla scuola e ai sistemi didattici che con grande fatica accettano la leva emozionale. Eppure, proprio la curiosità che governa l’apprendimento ha una forte componente emotiva.
Curiosità e apprendimento
In molti studi sul cervello, svolti con la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la curiosità viene collegata al meccanismo dell’anticipazione della ricompensa, cioè a una condizione che si attiva nella nostra mente quando prevediamo, più o meno consapevolmente, di ricevere una gratificazione.
L’argomento è particolarmente interessante se osservato in chiave educativa e didattica.
Ciò che, ad esempio, fa una grande differenza all’interno del sistema educativo scolastico è il modo con cui gli insegnanti gestiscono il sistema di rinforzo e punizione, direttamente collegato al sistema della ricompensa.
La previsione della gratificazione è di per sé fonte di piacere, a prescindere dalla nostra ricerca e dalla soddisfazione che scatta in noi per effetto dell’ottenimento del risultato sperato. Secondo le evidenze, infatti, la curiosità aumenta in maniera direttamente proporzionale al grado di incertezza e non alla grandezza della successiva ricompensa, come si potrebbe pensare. La qual cosa conferma la teoria psicologica che vede la curiosità come un atto gratificante in sé.
La spiegazione scientifica è che i meccanismi che regolano curiosità sono associati all’attivazione di più regioni cerebrali ma, soprattutto, del nucleo accumbens, un’area chiave nel meccanismo della ricompensa, implicata anche
- nella motivazione,
- in vari meccanismi del rinforzo dell’azione,
- nell’elaborazione del piacere,
- della paura,
- nell’avversione,
- nelle dipendenze e
- di fronte a stimoli inaspettati o nuovi.
Tutte condizioni associate ai meccanismi di gratificazione e alla condizione di curiosità.
Le evidenze scientifiche
La connotazione positiva che, infatti, diamo al piacere rinforza i comportamenti curiosi di ricerca delle informazioni associate, a tal punto da spingere la persona a reiterare le stesse azioni più volte, complice la produzione di dopamina, il neurotrasmettitore coinvolto nei meccanismi di ricompensa. Quando siamo curiosi e ricerchiamo le informazioni che ci appaiono funzionali a placare il desiderio di autogratificazione, è perché nel nucleo accumbens e nel mesencefalo si verifica una scarica di dopamina che si associa al sistema della ricompensa.
Del resto, il funzionamento di tale sistema è alla base delle principali teorie evoluzionistiche e può essere considerato come una delle astuzie che la Natura mette in atto, come afferma Paolo Meazzini nel libro “Apprendimento ed emozioni”, per garantire una buona capacità di adattamento dell’organismo all’ambiente. Secondo Spencer (1870) e Skinner (1972), sarebbe proprio attraverso la ripetizione di azioni che conducono alla ricompensa, al rinforzo positivo, in alternativa a quelle che portano alle punizioni che si generano adattamenti sempre più adeguati. E questo vale anche per le pratiche educative.
Da sempre, infatti, le azioni poste in essere da genitori, educatori e insegnanti si basano in larga misura sulla gestione delle ricompense e delle punizioni. Meazzini afferma che “la storia della pedagogia è ricca di spunti metodologici e applicativi nei quali la ricompensa è intesa come strumento necessario per favorire, e in taluni casi indurre, l’apprendimento.” Il motivo lo spiega lo psicologo e accademico statunitense Edward Lee Thorndike (1874/1949). Dare un rinforzo a uno studente significa, in effetti, offrire un assist ai suoi talenti (che, per definizione, affondano le radici nella storia emotiva della persona, negli interessi, nei valori e nelle sue passioni). Agendo così, il docente ha maggiori possibilità di ottenere una risposta dal suo studente e di stimolare la sua curiosità verso l’apprendimento, dal momento che proprio il rinforzo aiuta a consolidare il legame associativo tra stimolo e risposta.
Il rinforzo e la punizione
Il rinforzo, dunque, facilita l’apprendimento, in quanto
- influenza direttamente il processo di rehearsal, il passaggio dell’informazione dal magazzino a breve termine a quello a lungo termine (come spiega Glaser nel 1971 e come hanno confermato le neuroscienze di recente grazie alle tecniche di neuroimaging che evidenziano il coinvolgimento dell’ippocampo, sede della memoria) e
- spinge la persona a focalizzare la sua attenzione.
Miller, Hull e Skinner sostengono che il rinforzo è condizione essenziale affinché ci sia l’apprendimento. Per Bandura è tra i principi fondamentali dell’apprendimento ma non il più importante. Per altri è perfino marginale.
In “Human learning” (1931), Thorndike spiega che la ricompensa garantisce la risposta e consolida il nesso associativo stimolo-risposta, al contrario di quello che accade con la punizione che indebolisce il nesso associativo stimolo-risposta e, quindi, favorisce l’eliminazione della risposta stessa. In realtà, la “legge dell’effetto” di Thorndike ebbe vita breve perché, infatti, presto si scoprì che ricompensa e punizione non esercitano una forza equivalente e contraria sull’apprendimento. Mentre, infatti, la ricompensa aumenta la probabilità di risposta, la punizione non sempre la diminuisce.
La risposta ok
Successivamente, dunque, elaborò la cosiddetta “risposta ok”, atteggiamento di autocompiacimento in virtù del quale è come se il soggetto dicesse a se stesso “Ho fatto bene” e questo costituisse, di conseguenza, la vera ricompensa.
Gli studi condotti da Thorndike negli anni ’30 del secolo scorso hanno dimostrato il graduale aumento delle prestazioni in maniera naturale in persone esposte a rinforzi, anche quando vi siano dei rinforzi negativi come risposta adiacente ai rinforzi positivi. Egli chiamò “diffusione dell’effetto” questo fenomeno.
Il limite di questa teoria, rilevato da Nuttin nel 1953, è che l’aspetto apparentemente più importante della situazione di apprendimento viene trascurato da Thorndike ed è l’atteggiamento indotto nel soggetto esposto all’apprendimento dalle istruzioni che gli vengono presentate. Sarà Skinner nel 1957, sulla scorta delle considerazioni di Nuttin, a introdurre il concetto di “condizionamento verbale” operante nell’apprendimento umano come fattore indispensabile di rinforzo funzionale all’apprendimento stesso. Condizionamento verbale che, come dimostrato da numerosi studi successivi, assicura la risposta nel 75% dei casi.
Il condizionamento verbale
Viene, allora, da chiedersi quale sia il rinforzo migliore. A nostro avviso, il rinforzo migliore è quello che, attraverso il condizionamento verbale e il contatto visivo ed emozionale tra il docente e lo studente, fa sentire quest’ultimo accolto e confortato.
Come spiega la Warm Cognition, corrente psicologica che si fonda sull’“apprendimento caldo”, coinvolgere emotivamente lo studente genera la produzione di ossitocina, l’ormone della fiducia, che in sé costituisce già una ricompensa per l’organismo, che, così, collega le informazioni emotive ai contenuti e produce apprendimento per la vita, “da dentro a dentro”.
Se, allora, le parole dell’insegnante toccano le vite dei ragazzi, facendo leva sulle loro emozioni, sugli interessi e sulle passioni e alimentando il dialogo interiore con la storia personale (come spiega l’epigenetica), gli studenti ricevono un rinforzo positivo, una ricompensa, che rinnova la curiosità in un loop virtuoso che molto dipende dalla dedizione dell’attenzione dell’educatore.
Questa è la base della didattica dell’intelligenza emotiva.
0 commenti