Nel suo libro Non per profitto. Perché le democrazie “hanno bisogno” della cultura umanistica, Martha Nussbaum scrive che la spinta al profitto induce molti leader a pensare che la scienza e la tecnologia siano di cruciale importanza per il futuro dei loro Paesi. Senza aver nulla da obiettare sull’utilità di una buona istruzione tecnico-scientifica, associandomi (indegnamente) alla grande filosofa neostoica, esprimo tutta la mia preoccupazione per il fatto che le nuove generazioni, che a gran voce chiedono, anche con un italiano sgangherato, l’abolizione del tema argomentativo, troppo semplicisticamente confidano in talune capacità, tutte da confermare, a scapito di altre. Ma, come conferma anche l’Agenda 2030, talune vituperate competenze sono determinanti per la creazione di una cultura mondiale in grado di affrontare i più urgenti problemi planetari.
Oltre la tecnica
Le capacità di cui parlo sono quelle associate agli studi umanistici e artistici:
- pensare criticamente,
- trascendere i localismi per affrontare i problemi mondiali come “cittadini del mondo”,
- raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro.
E altrettanto importanti nel favorire un proficuo dibattito circa i più pressanti problemi mondiali si rivelano la filosofia, lo studio della storia del mondo e delle principali religioni, lo studio comparato della cultura. Così come è sempre più necessaria un’“immaginazione coltivata”, in grado di farci vedere il mondo attraverso gli occhi di coloro che si trovano in situazioni differenti dalla nostra.
- Per questo abbiamo bisogno della letteratura e dell’arte: per raffinare “il nostro occhio interiore”, scrive il filosofo e accademico italiano Dario Antiseri in un articolo di qualche tempo fa sulla Rivista Lasalliana.
- Aggiunge lo scienziato cognitivista e teorico della comunicazione statunitense, Noam Chomsky: “Si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica”.
Quello che i delatori di una scuola delle competenze non cognitive, dell’intelligenza emotiva, degli studi umanistici, filosofici e artistici non valutano opportunamente è che l’accantonamento (o il taglio) degli studi umanistici, oltre a rappresentare un pericolo per la democrazia, si ripercuote negativamente perfino sulle stesse attività economiche, improntate al risultato e al profitto, nel cui nome si vorrebbe una nuova riforma del sistema scolastico.
Edmund Phelps
Una sana cultura economica necessita di creatività e pensiero critico, come alcuni autorevoli economisti, tra i quali il premio Nobel per l’Economia Edmund Phelps, hanno, a più riprese, sottolineato. Il mercato del lavoro non ha solo bisogno di maggiori competenze tecniche ma richiede sempre più soft skills, come la capacità di
- pensare in modo fantasioso e divergente,
- elaborare soluzioni creative per risolvere problemi complessi e
- adattarsi alle mutevoli circostanze.
E un primo passo in questa direzione – afferma Phelps – è quello di incentivare lo studio delle materie umanistiche, letteratura, filosofia e storia, al Liceo e all’Università.
Insomma, il futuro del mondo è nelle mani degli umanisti almeno quanto in quelle degli economisti.
Formare menti critiche e creative
Il problema vero che la scuola e i tanti pensatori che si affannano a ricercare soluzioni è che, oggettivamente, oggi moltissimi giovani arrivano all’Università e non sanno né scrivere, né argomentare, meno che mai interpretare, perché nella nostra scuola media inferiore e in quella superiore stanno scomparendo antiche e formative pratiche didattiche come il tema argomentativo, il riassunto, le versioni di greco e latino (che aiutano la capacità ermeneutica).
La scuola si affanna a insegnare le scienze e la matematica ma le materie scientifiche, “senza opportune iniezioni di storia della scienza e di riflessione epistemologica, rischiano di trasformare l’attività più antidogmatica della mente umana in un diffuso dogmatismo scientista”, spiega Antiseri.
Per questo la nostra società ha l’impellente esigenza di formare cittadini dalla mente critica e creativa e la crescente necessità degli studi umanistici (che portano a questo), nella consapevolezza, già chiara oltre due secoli fa ad Antonio Rosmini, che “chi non è padrone di sé è facilmente occupabile”. E non è e non sarà mai la tecnica, con la sua fredda razionalità, che aprirà la mente delle giovani generazioni fino a questo punto.
Il tema argomentativo
Quando ancora nessuno aveva coniato il concetto di analfabetismo funzionale, Tullio De Mauro, promotore della più importante indagine all’interno della scuola italiana sul livello delle conoscenze linguistiche degli studenti, aveva già lanciato l’allarme del declino dell’apprendimento scolastico e della scomparsa delle emozioni dalla scuola. Con conseguente perdita del desiderio, della motivazione e della passione nello studio. Per De Mauro (siamo nel 1984), troppo spesso, l’unico scopo del tema era quello di compiacere il professore, senza cura per l’argomento, per sentimenti e pensieri, finendo così per trasformarsi nell’esatto contrario di quello che dovrebbe essere, cioè in una sottile opera di diseducazione morale.
Ma già da un po’ si parlava del malessere della scuola. Già nel 1856, Francesco De Sanctis denunciava che “i lavori di scuola” oscillassero tra la retorica, da una parte, e l’inaridimento del cuore e della fantasia, dall’altra.
Se davvero il tema argomentativo è questo, allora è giusto abolirlo. Tanto non serve a nulla. Ma se ci è chiaro che fare il compito d’italiano, invece, equivale a risolvere un problema, allora urge incoraggiarne la pratica.
Fare un tema è argomentare a favore di una tesi in contrapposizione ad altre. È discutere, con la guida del docente, posizioni e proposte, valutandone vantaggi e svantaggi. Non serve a niente assegnarlo a sorpresa: perché funzioni come prezioso momento formativo, intellettuale e morale, va preparato con discussioni in classe, attraverso visioni di film e documentari o letture di saggi, articoli di riviste e giornali, individualmente, a casa o in piccoli gruppi.
Per questo, svilirne l’utilità è accettare un furto formativo che, alla lunga, diventa un furto di democrazia.
Le versioni e i riassunti
Scienziato al pari del fisico è il traduttore. Chi si è confrontato con una versione dal latino e dal greco (più delle traduzioni dalle moderne lingue straniere, il cui uso commerciale ne ha contratto vocabolario e sintassi) sa bene che tradurre è il risultato di congetture e confutazioni, successi e fallimenti. Le memorie degli studenti del Ginnasio e del Liceo fanno comprendere la portata formativa della traduzione, vero e proprio esercizio di problem solving da coniugarsi con un autentico sforzo argomentativo. Considerato che
- non di rado la didattica delle scienze consiste nel memorizzare formule e leggi in base alle quali eseguire poi esercizi e
- che spesso la didattica delle letteratura e della storia si risolve in sforzi mnemonici che escludono curiosità e ricerca,
è, allora, facile constatare le vecchie, care, detestabili traduzioni restano, ancora oggi, le migliori attività di autentica ricerca. La traduzione è, infatti, un dialogo tra l’autore di un testo e il traduttore. Perché le domande che il traduttore pone al testo ricevono risposte dal testo e dal contesto. E quel dialogo ha buon esito se il traduttore riesce a far parlare il testo e a fargli esporre il suo messaggio.
Lo stesso per l’altra vituperata pratica del riassunto. Eppure, proprio riassumere è opera di sintesi e comprensione del pensiero altrui: altro esercizio di empatia, come la traduzione. Gli studenti, infatti, riassumendo un brano e confrontandosi tra loro, anche oltre il testo, sperimentano l’acquisizione del punto di vista altrui, della divergenza d’interpretazione, la tolleranza: c’è, infatti, chi coglie subito il nucleo fondamentale del testo, chi lo incornicia in un contesto più ampio, ci gira attorno, chi insiste solo su aspetti poco rilevanti e significativi.
In conclusione
Più temi argomentativi, riassunti, versioni di greco e latino, dunque, come momenti formativi per una mente
- critica,
- allenata a risolvere i problemi,
- ad argomentare,
- a soppesare i pro e i contro di una proposta e
- pronta a riconoscere gli errori propri e altrui.
Ciò non significa assolutamente che le altre discipline e materie non siano altrettanto importanti. Anzi, al contrario. Serve tutto e tutto nella misura. Ma l’apologia della cultura umanistica serve a proteggere la cultura dell’essere umano e i futuri cittadini del mondo dal lavaggio del cervello dei grandi comunicatori, da cui solo sentimenti e pensieri sincronizzati tra loro possono salvare.
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