Nelle indagini sociali intorno al modo di vivere dei giovani, la ricerca degli ultimi quindici anni ha dimostrato che l’intelligenza emotiva è una strategia efficace per la prevenzione dell’uso di droghe. E che, per contro, bassi livelli di intelligenza emotiva sono associati a comportamenti devianti, al bullismo, alla violenza, alla delinquenza abituale e ad un maggior rischio di detenzione carceraria. Proteggere la salute dei ragazzi è uno dei compiti della scuola, oltre a metterli in condizione di apprendere in maniera funzionale. Argomento affrontato, peraltro, nella proposta di legge sull’introduzione delle competenze non cognitive e dell’intelligenza emotiva a scuola.
Adolescenza e abusi
In un articolo recente, che mette in collegamento gli studi di Mischel nella Stanza delle sorprese con lo studio longitudinale di Dunedin (Nuova Zelanda, 1972-2011) di Moffitt e Caspi, ho parlato dell’intelligenza emotiva e di come, una volta acquisita tale competenza negli anni della scuola, le stesse perdurino da adulti e aprano a una vita felice, in salute e di successo.
Se consideriamo che uno dei dati più preoccupanti che riguardano la salute dei nostri ragazzi sono gli abusi con esordio sempre più precoce, comprendiamo quanto sia fondato l’allarme lanciato dall’OMS già nel 1993, allorquando si iniziava a fare qualche timido riferimento alla necessità che anche a scuola ci si occupasse, tra le altre cose, di emozioni, creatività e benessere.
A titolo di puro esempio, basti pensare che
- Il 18,3% della popolazione mondiale fa consumo intenso di alcol,
- il 15,2% di tabacco,
- il 3,8% di cannabis (in Europa, 17,2 mln di giovani tra 15 e 34 anni),
- lo 0,77% di anfetamine,
- lo 0,37% di oppiacei,
- lo 0,35% di cocaina (in Europa, 2,3 mln di giovani tra 15 e 34 anni),
per comprendere quanto sia urgente intervenire sul tema della salvaguardia della salute dei giovani. Benché siamo d’accordo che servano più livelli d’intervento, uno è certamente quello della famiglia e della scuola. Cioè, quello dell’educazione e della prevenzione.
Intelligenza emotiva a scuola
Fondamentale è, dunque, il compito della scuola che è chiamata ad agire fin da i primissimi anni. Perché l’educazione emotiva, che aiuta a resistere agli impulsi e a rimandare la gratificazione, è dimostrato essere predittiva dello stile di vita da adulti.
Diverse metanalisi (studi che sintetizzano in forma empirica i risultati di più ricerche) dimostrano che le scuole che mettono in atto programmi sull’intelligenza emotiva ottengono miglioramenti apprezzabili sotto il profilo
- del rendimento scolastico,
- della relazione docente-discente (con riduzione delle sanzioni disciplinari) e
- sul benessere personale (con riduzione dell’ansia emotiva).
Questo spiega l’introduzione di una didattica innovativa nella scuola italiana che valorizza gli aspetti relazionali docente-discente tra le competenze di vita fin dall’infanzia, metodologia nella cui direzione vanno pensati specifici programmi di formazione per i docenti.
L’insegnante ideale
L’insegnante ideale, allora, oltre al bagaglio di conoscenze tecniche, possiede abilità e competenze emotive e sociali. Nella fattispecie,
- competenze intrapersonali (essere flessibili, autocontrollarsi, gestire i conflitti) e
- interpersonali (esprimere le emozioni, essere empatico, leadership).
- Deve, inoltre, essere creativo, possedere pensiero divergente e critico e spirito di iniziativa).
Tutti aspetti mancanti, secondo la Terza indagine ICCES, dal curriculum degli insegnanti.
Impresa non facile, se si considerano le emozioni che attualmente si vivono a scuola. Secondo le ricerche, infatti, le tre emozioni associate all’insegnamento sono
- frustrazione,
- sopraffazione e
- stress.
Mentre, le emozioni desiderabili sono
- felicità,
- apprezzamento e
- sostegno.
Gli studi fin qui disponibili, però, dimostrano che i docenti che provano emozioni sgradevoli a scuola vivono situazioni stressanti e soffrono di peggiore salute fisica (ansia, depressione, disturbi del sonno) rispetto ai colleghi.
Siamo sotto stress?
Per una scuola che funzioni, dunque, occorre occuparsi del benessere degli insegnanti (e, di conseguenza, delle emozioni che infonde la scuola. Il cattivo rendimento lavorativo dei docenti, ad esempio, produce un basso rendimento scolastico degli studenti e peggiori valutazioni.
Un utile esercizio per comprendere se siamo sotto stress è provare a dare una risposta onesta alle domande nell’immagine che segue e collocare opportunamente ogni stato d’animo esperito nella giusta posizione nello schema del modello dimensionale delle emozioni, sapendo che le performance più elevate, per il benessere personale e lavorativo, si ottengono quando le emozioni si collocano a metà del quadrante di destra (immagine successiva).
Tuttavia, non è sempre facile rispondere obiettivamente. O, più spesso, le risposte tendono a confermare le nostre convinzioni intorno alla nostra condizione (o competenza) emotiva. Per questo – e, soprattutto, per acquisire un’egemonia sul mondo emozionale – esistono programmi di formazione sull’intelligenza emotiva, anche in relazione all’efficacia dell’insegnamento. Soprattutto quando il docente non riesca a comprendere bene da dove provengano e come si chiamino le emozioni che prova e come vadano gestiti quegli stati d’animo, specie se sono negativi (nel senso che creano separazione dal benessere personale) o se si rivelano inefficaci.
L’intelligenza emotiva
L’Intelligenza Emotiva permette, infatti, di ridurre l’intensità e la frequenza degli stati d’animo negativi causati dallo stress della quotidianità e, al tempo stesso, riveste un ruolo chiave nella ricerca della felicità e di emozioni piacevoli.
Che la formazione sull’intelligenza emotiva funzioni, però, dipende da una serie di fattori. I training formativi, ad esempio,
- risultano più incisivi quando si concentrano sulla abilità di percepire, esprimere, regolare e usare consapevolmente le emozioni;
- devono avere durate congrue (cioè, devono essere intensivi, pratici, continuativi e prolungati nel tempo);
- devono avere focus attivo ed esperienziale (in altre parole) le teoria deve essere ridotta al minimo.
In un programma continuativo e intensivo di formazione sull’intelligenza emotiva, è ideale prevedere momenti di confronto in un contesto sicuro e che ispiri fiducia. Occorre anche conoscere il mindset dei partecipanti per comprendere come essi si vedano davanti ad un possibile cambiamento.
Il potere del mindset
Perché occorre conoscere il mindset dei participanti? Lo spiego subito con un esempio. Esprimete una valutazione in relazione alla seguente affermazione, attribuendo un punteggio da 1 a 7.
Subito dopo, consultate la seguente tabella e confrontate la vostra scelta con il profilo che emerge, a seconda che abbiate dato una risposta più vicina all’1 o al 7. Con le dovute sfumature, il mindset vi collocherà sul versante delle persone con mentalità fissa o di crescita.
Come dimostrano gli studi dell’ideatrice del test, la Prof.ssa Carol Dweck dell’Università di Stanford, che definisce “mindset” (mentalità) l’insieme di credenze e di teorie implicite con cui percepiamo il nostro comportamento e che condizionano le nostre azioni, un cambiamento avviene solo se è ritenuto possibile. Per inciso, gli studi condotti all’Università di Lovanio, in Belgio, dimostrano che le attività formative mirate possono aiutare ad accrescere l’intelligenza emotiva. Quindi, la risposta più corretta è la n. 1.
Indicazione molto preziosa per comprendere che, al di là del benessere su cui agisce l’intelligenza emotiva a scuola, i programmi di formazione dei docenti sulle competenze non cognitive daranno i risultati attesi se chi vi prenderà parte penserà che tutto questo abbia un senso.
0 commenti
Trackback/Pingback