L’Intelligenza misurabile in termini di QI è certamente una delle più importanti capacità di cui siamo dotati. Ma non è l’unica, visto che alle capacità di risolvere problemi complessi legati alla quotidianità e alla messa in campo di risorse creative che mettono in condizione le persone di « vedere oltre » concorrono altre competenze di natura differente.
Lo sguardo sul mondo, evidentemente, dipende da un insieme di fattori di cui solo uno è rappresentato dal quoziente di intelligenza.
In che modo, allora, la scuola si cura di sviluppare queste competenze non-tecniche? Perché è da lì che occorre iniziare: tutti, in fondo, passano dalla scuola.
Le intelligenze multiple
Ascoltavo tempo fa un video, in cui un noto pedagogista (di cui, tuttavia, mi sfugge il nome) parlava del quoziente di intelligenza e affermava qualcosa che suona più o meno così: « È normale che i bambini a scuola siano aggressivi. A scuola si annoiano perché gli insegnanti non sanno come agganciarli.
Con la noia arriva la rabbia che poi sfocia in aggressività. Il punto è che i nostri bambini sono più intelligenti dei loro insegnanti, dato che il QI ogni dieci anni evolve di tre punti. Un insegnante di quaranta anni, rispetto a un bambino di dieci, ha un rapporto di intelligenza invertito. In pratica, il bambino ha mediamente almeno nove punti di QI in più rispetto all’insegnante. Ha, dunque, bisogno di stimoli maggiori che la scuola non sa come offrire. »
In questo modo, la stanchezza dell’istituzione e di alcuni docenti (che probabilmente intravedono la linea del traguardo della tanto agognata fine carriera!) finisce per premiare solo gli studenti dotati di alcune intelligenze: soprattutto quella linguistica e quella logico-matematica, su cui si fonda il curricolo.
Connettere i puntini
Quello che il bambino intelligente del nostro tempo non ha, però, è la maturità, cioè una visione di insieme rispetto alle cose del mondo. E, con essa, la capacità di connettere i puntini, poiché la scuola non è preparata a implementare una didattica creativa, innovativa e coinvolgente. Ecco che, allora, emergono solo gli studenti considerati bravi ai sensi dei codici ammessi dalla scuola, mentre i creativi e quelli più dotati di altre competenze (come quelle relazionali, ad esempio) restano nell’ombra.
Emergeranno da adulti, si spera, se si accaseranno in ambienti professionali che valorizzano tali capacità.
Vedere oltre
Peccato però che la scuola non si faccia proprio carico dei diversi talenti dei ragazzi.
Vedere oltre, non fermarsi alle apparenze, possedere pensiero critico sono i segnali della raggiunta autonomia, quella competenza dà sostanza all’Intelligenza.
Va detto, a onor del vero, che i tempi stanno cambiando e che le aziende oggi gradiscono e apprezzano molto le cosiddette « humanities », le soft skill o competenze di vita che, in alcuni casi (e, certamente, nei Paesi dalle economie più floride), sono considerate importanti almeno quanto quelle tecniche. Il noto autore belga, Frederic Laloux, afferma addirittura nel suo brillante saggio “Reinventare le organizzazioni. Come creare organizzazioni ispirate al prossimo stadio della consapevolezza umana” che: « L’evoluzione di un’impresa è direttamente proporzionale al grado di consapevolezza del suo leader ». Il che, una volta per tutte, fissa le competenze emotive, quelle che la scuola fatica a valorizzare, al vertice della scala del successo in campo professionale.
Emozioni e impresa
Ecco, finalmente, che compare e trionfa (almeno sul piano concettuale) il binomio Emozioni e Impresa.
Benché, tuttavia, i nuovi testi e le indagini internazionali affrontino, infatti, proprio i concetti di fiducia, empatia, condivisione, compartecipazione, spiegandone la ricaduta sulle economie di un’azienda, ancora sono lontani i tempi in cui un manager, nel dubbio se assumere un ottimo membro con sufficienti doti di analista contabile e un burbero genio della matematica, sceglierà il primo.
È un fatto di cultura che ancora oggi ci fa preferire le abilità scientifiche alle doti umane, dando implicitamente ragione alla scuola. Ma, per fortuna, non durerà ancora a lungo.
Il QI, infatti, è solo uno dei fattori predittivi del successo. Lo dimostrano, peraltro, gli studi di tanti neuroscienziati, tra cui il più conosciuto è probabilmente lo Psicologo statunitense (nonché Docente alla Harvard University) Howard Gardner.
A scuola
Gardner, osservando l’evoluzione scolastica di un campione di studenti dalla laurea ad Harvard fino all’inserimento nella vita professionale, poté osservare come gli studenti più promettenti, quelli con i voti più alti e con i livelli più alti di quoziente di intelligenza, di sicuro ottenevano delle buone posizioni lavorative (cosa che vale sempre) ma che anche altri meno dotati vi riuscivano.
È molto difficile, infatti, che una persona che abbia un alto livello di QI occupi nella società, nella vita professionale, un ruolo di basso profilo. Ma se vi riescono anche studenti meno capaci, con risultati scolastici decisamente inferiori, deve per forza esserci dell’altro, qualcosa che sfugge all’osservazione macroscopica dei più.
Oggi sono molte le ricerche che dimostrano che la preparazione tecnica ha un’incidenza sul successo di una persona per circa il 20% delle concause, mentre sono altre le variabili che concorrono a determinare il restante 80%.
L’intelligenza complessiva
L’intelligenza complessiva, allora, è composta da conoscenza, abilità e competenze tecniche non meno che da inclinazioni personali, talenti, attitudini e atteggiamenti che hanno a che vedere con il sistema di valori personali e con la capacità di intrattenere relazioni gratificanti.
Howard Gardner giunge a questa evidenza osservando una bambina in particolare che, pur essendo meno dotata e meno capace di altri compagni di scuola, tuttavia eccelleva in una competenza straordinaria: era il punto di riferimento di tutti i compagni di scuola che erano in difficoltà, perché possedeva il dono di saper ascoltare.
Con l’osservazione del successo personale nella vita adulta di quella che un tempo era una bambina tra i banchi di scuola, di fatto, Gardner scopre come la capacità di entrare in sintonia con gli altri sia una dote molto apprezzata e « monetizzabile » in ambito lavorativo, al pari delle grandi promesse della scuola. Ha origine così, tra le intelligenze multiple, lo studio di quella competenza che oggi conosciamo con il nome di intelligenza interpersonale.
L’intelligenza emotiva in classe
Intelligenza intrapersonale (consapevolezza e gestione di sé) e intelligenza interpersonale insieme compongono l’Intelligenza Emotiva e si collocano accanto all’Intelligenza corporeo-cinestetica, logico-matematica, linguistica, manuale, artistica e musicale.
Ma ce ne sono tante altre (almeno venti, afferma Gardner) poco considerate in passato ma che sono destinate a diventare il futuro del curricolo.
Il mio personale augurio è che presto la Proposta di Legge sull’introduzione dell’Intelligenza Emotiva nelle scuole di ogni ordine grado (testo al quale ho collaborato) diventi realtà. Sarà quello il primo passo della nuova era dell’educazione e della formazione: l’era della scuola studente-centrica, come ama dire il mio amico Prof. Daniele Manni, Insegnante salentino Vincitore del Global Teacher Award 2020.
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