Un bambino che, indipendentemente dal suo impegno, non riesce a ottenere risultati scolastici soddisfacenti può percepirsi incapace sia nei confronti dei compagni che delle aspettative di insegnanti e familiari. Senso d’impotenza, vergogna, frustrazione sono alcuni dei sentimenti che può, infatti, provare un bambino con disturbo specifico dell’apprendimento (DSA), in assenza di una diagnosi tempestiva. Che risposta ci aspettiamo dalla scuola in casi simili?
Il pregiudizio
Sono frasi fatte ma spesso nascondono la negazione di evidenti difficoltà di cui le famiglie si sentono responsabili:
- lo fa apposta per attirare l’attenzione;
- è intelligente ma svogliato;
- non si applica abbastanza.
Quindi, meglio attribuire a fattori congiunturali una prolungata incapacità, piuttosto che chiedere un aiuto.
Eppure, in molti casi, una scarsa applicazione nello studio non è causa di uno scarso impegno ma la conseguenza di difficoltà e disagio emotivo che vivono scolari con un disturbo specifico dell’apprendimento. Prima che venga diagnosticato.
Cause dei disturbi dell’apprendimento
Stando alle evidenze, i DSA hanno un’origine neurobiologica. Tuttavia, posseggono, al contempo,
- una matrice evolutiva, essendo caratterizzati da un ritardo e da atipia del processo di sviluppo, e
- una matrice ambientale. Se posto nelle condizioni di attenuare o compensare il disturbo attraverso interventi mirati, infatti, un bambino con DSA sarà perfettamente in grado di raggiungere gli obiettivi di apprendimento previsti.
La Scuola per i DSA
La Legge 170/2010 stabilisce, sull’argomento, che le istituzioni scolastiche eroghino una didattica personalizzata e individualizzata. Secondo il Legislatore, in altre parole, la scuola deve offrire forme flessibili ed efficaci d’apprendimento, commisurate con i talenti e i bisogni. Considerate, infatti, le caratteristiche peculiari degli alunni, l’auspicio è che venga attuata una strategia educativa e applicata una metodologia in linea con risorse e necessità specifiche di ognuno, al fine di garantire un reale diritto allo studio.
Il senso della legge è che ogni intervento educativo non venga applicato a cascata su tutti ma calibrato sul singolo. Dunque, personalizzato. Andrà anche contestualizzato alla situazione didattica dell’insegnamento in classe, con obiettivi comuni per tutti i componenti del gruppo.
Quindi, occorre adattare diverse metodologie in funzione delle caratteristiche individuali dei discenti, per garantire a tutti il conseguimento delle competenze didattiche e affinché ognuno abbia l’opportunità di sviluppare al meglio le proprie potenzialità.
Il ruolo dell’insegnante
Fin qui, questo è quello che dice la Legge 170. Ma come può realizzarsi un progetto simile?
“Un vero professore si preoccupa di comprendere il dolore e la solitudine di un bambino che non capisce in un mondo di ragazzi che capiscono”, scrive Daniel Pennac.
L’insegnamento è un’attività molto complessa. Lo è sempre stata. Non lo scopriamo certo adesso. Ma oggi lo è ancor di più, visto che spesso la scuola è chiamata a sostenere e, talvolta, anche a sostituirsi alle famiglie. Quando non a contenere le ansie e reggerne la rabbiosa forza d’urto. In questo panorama, ecco che al docente è richiesta
- la capacità di riuscire a gestire e risolvere una molteplicità di problemi con risorse limitate. E, al contempo, anche
- l’impegno di raggiungere obiettivi diversi per allievi diversi.
Le strategie dell’insegnante
L’insegnante deve possedere una capacità di osservazione lungo tutto il percorso scolastico. Solo un’osservazione attenta e costante, infatti, può permettere di individuare le potenzialità degli allievi e orientare al successo formativo. L’osservazione dovrà riguardare la persona nella sua interezza, con particolare attenzione alle prestazioni nei vari ambiti di apprendimento (calcolo, lettura e scrittura soprattutto).
Egli dovrà improntare la relazione educativa anche in previsione di specifiche attività di potenziamento e recupero per gli allievi che mostrano particolari difficoltà. Questo “piano B” è il piano d’emergenza per compensare le lacune evidenti. Adattando, infatti, la didattica alle unicità dei bisogni educativi degli alunni, l’insegnante potrà puntare al potenziamento dei punti di forza di ciascuno e allo sviluppo consapevole delle diverse preferenze e dei talento.
Se, tuttavia, le atipie dovessero permanere nonostante i diversi interventi, sarà suo compito comunicare alla famiglia quanto osservato. Questo affinché sia accertato con le dovute indagini la presenza o meno di un disturbo specifico di apprendimento. Ad ogni buon conto, va detto che solo il 20% degli alunni che manifestano difficoltà nelle abilità di base vengono classificati DSA. Tra di essi, ancora, solo per il 3-4% degli alunni viene confermata una diagnosi di Disturbo Specifico di Apprendimento.
I mediatori didattici
Per promuovere il successo formativo e le potenzialità in ogni allievo, l’insegnante può avvalersi di mediatori didattici (mappe concettuali, schemi etc.) che permettono di calibrare gli interventi in base ai diversi stili di apprendimento. La legge 170/2010, inoltre, prevede strumenti compensativi e misure dispensative che permettono di facilitare l’apprendimento. Questi strumenti (calcolatrici, registratori ecc.) sono pensati per prevenire frustrazione e demotivazione che derivano dall’incapacità di taluni alunni di eseguire un compito come gli altri.
Ripensare la didattica
Per far fronte a questa sfida, gli insegnanti, a cui è richiesto il possesso di competenze psicopedagogiche, dovranno privilegiare l’uso di metodologie di carattere operativo e trasmissivo.
- Uno strumento utile in una classe dove ci siano studenti con sospetti DSA è l’uso di tecniche di Comunicazione Aumentativa e Alternativa.
- Deve, dunque, affinare le abilità di trasferimento delle informazioni (il “come” si spiega), mentre oggi l’aggiornamento sembra insistere ancora sui contenuti (il “che cosa” si spiega).
- Inoltre, deve dare importanza all’attività fisica e corporea, poiché l’apprendimento ha una base motoria (come dimostra questo video sulla Danzamovimentoterapia nei DSA).
E non è tutto. Quante cose ancora dovrebbe fare l’insegnante? Ad esempio
- favorire la vita di relazione,
- stimolare l’espressione attraverso tutti i linguaggi,
- favorire la narrazione, la memorizzazione e la creatività.
Il limite dei programmi ministeriali
Ma poi tutto questo viene fatto? O si rincorrono i programmi che paralizzano una strategia didattica inclusiva? L’insegnante, rispetto a questo, è con le spalle al muro. E avrebbe bisogno del mantello da supereroe.
In linea di principio, tuttavia, sarebbe auspicabile che l’istituzione scolastica riuscisse a garantire il reale diritto di uguaglianza delle opportunità educative, oggi fin troppo teorico. In questo modo, essa assolverà al compito di instillare nei ragazzi la capacità di imparare ad apprendere e di imparare ad essere uomini, con modalità, toni e condizioni differenti.
Sempre che vogliamo ancora credere che insegnare significhi fornire gli strumenti intellettuali necessari per il pensiero libero. Cioè che insegnare significhi plasmare i contenitori, le menti. E per permettere ad ogni bambino di sviluppare una personalità equilibrata e creativa perché diventi artefice del proprio destino.
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