La pandemia del COVID-19 ha esacerbato, alla lunga, l’evidente incapacità che i cittadini del mondo hanno manifestato di agire insieme. Benché, allora, la globalizzazione ci renda più vicini grazie alle nuove tecnologie, la nostra iper-connessione manifesta la debolezza della frammentazione che rende più difficile affrontare e risolvere anche i più semplici problemi comuni. Scrive Papa Francesco (Skopje, 7 Maggio 2019): “Occorre riconoscere la dignità di ogni persona: c’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è. I sogni si costruiscono insieme!”
La solitudine e l’isolamento
Invece siamo soli… E siamo vittime di nuove forme di colonizzazione culturale che proliferano indisturbate quando le persone a cui si mira sono vuote, non hanno radici, hanno perso la fiducia e la speranza. In un simile clima resta in piedi unicamente il bisogno di consumare senza limiti, senza cura, senza rispetto e senza la prospettiva di quello che sarà, tuttavia ignorando che stiamo consumando noi stessi e le nostre relazioni. La società liquida sta diventando gassosa e si ammala ogni giorno di più
- solitudine,
- egoismo e
- isolamento,
camuffati da persistente connessione ma ineguagliabili generatori di conflitto e di crisi.
In questo periodo di isolamento, si è, infatti, esasperata la solitudine intrinseca delle persone, il cui rifugio nelle relazioni è puramente strumentale. Si sta insieme per interesse, fintanto che l’altro è utile per la realizzazione dell’individuo. Scompare, allora, la spazio che Lévinas definisce eccedenza, con ciò intendendo il prolungamento di sé nella relazione con l’altro. L’uomo occidentale, in definitiva, è così ripiegato su di sé da vedere l’altro non come entità autonoma, meritevole di rispetto e dignità, ma come un oggetto, un trampolino per l’autorelizzazione. E se questo non accade, può essere gettato via. Il che, con la coabitazione forzata dell’annus terribilis dell’umanità, ha prodotto un incremento dei reati contro la persona tra le mura domestiche e dei divorzi.
Ritornare a se stessi
Se, allora, non ci preoccuperemo tutti, nessuno escluso, di recuperare
- la nostra storia,
- la cultura dei valori e
- del rispetto,
nell’interesse delle relazioni tra la gente e dell’ambiente (che sta pagando così a caro prezzo questa diffusa maleducazione), il nostro destino, come genere umano, è irrimediabilmente segnato nel nome della violenza, dell’odio, della noncuranza, della prevaricazione. A cui solo una rinnovata cultura della persona e del rispetto può porre rimedio.
Adesso che siamo distanti gli uni dagli altri, paghiamo innanzi tutto la distanza da noi stessi, per rimediare alla quale ci resta ancora la possibilità di fare un passo indietro e ritornare a noi stessi.
L’unica crescita personale possibile
Riprendersi se stessi, allora, è la forma più evoluta di Crescita Personale. Perché, sempre con Papa Francesco (Fratelli tutti, 2020), “[…] siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere […].”
Nella corsa al benessere abbiamo perso di vista che le società più evolute non sono necessariamente le più industrializzate e ricche. Le più evolute sono, infatti, quelle in cui è più sentita la cultura della persona nella sua unicità e interezza, quelle che promuovono la cultura dell’essere. Dell’essere. Non dell’avere. Perché, “quando la dignità dell’uomo viene rispettata e i suoi diritti vengono riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza e la personalità umana può dispiegare le sue molteplici iniziative a favore del bene comune.”
Viceversa, se la dignità è calpestata, crescono conflitto e ostilità: è lì che l’impossibilità di essere abdica in favore di una cultura dell’avere.
La mercificazione della persona
La cultura dell’avere produce, d’altro canto, la mercificazione della persona. La nuova schiavitù è, allora, quella in cui gli abili manipolatori ricevono il tacito consenso di tutti coloro i quali ammettono di essere trattati come delle “cose”. L’uomo, ingannato o costretto con la forza, sia essa fisica o psicologica, si ritrova così privato della sua libertà, ridotto a oggetto, trattato come un mezzo e non più come un fine.
La differenza tra essere e avere, in fondo, è tutta qua. Se, infatti, il fine dell’uomo è essere, l’avere lo manipola per raggiungere altri scopi. L’uomo-oggetto tratta
- se stesso,
- l’ambiente e
- il mondo intero
come una merce per perseguire una ricchezza personale che si materializza nel predomino sull’altro, nel “non-ascolto”, nella noncuranza, nell’isolamento e nell’indifferenza verso la vita stessa che è espressione di ogni forma di dittatura e di schiavitù. I mezzi di comunicazione di massa, da una parte, la mala scuola, dall’altra, producono freddi burocrati e robot, spaventati e inerti, che sono il tramite per scopi materiali che diventano assurdamente ammissibili da chi ammette di essere trattato da oggetto. Cioè, dai più. Questa è la ragione per cui occorre restituire una dignità all’uomo per restituire un’etica al vivere insieme, all’economia e ai mercati.
Vale per tutti gli organismi viventi
Il modo di funzionare dell’essere umano, infatti, è tipico di tutti gli organismi viventi.
Siamo, però, troppo poco consapevoli di ciò che siamo e di quello che abbiamo causato. Sappiamo, cioè, troppo poco di noi stessi per sapere di più degli altri, senza che questa sia una pia illusione. Ed è a questo livello che si presenta la nuova sfida che pone al centro la qualità delle relazioni come snodo per tutte le manifestazioni possibili del benessere. Perfino di quello economico.
Per questo il nostro agire deve essere animato da un “perché” più grande di noi stessi e mai dal tornaconto personale.
E se il perché dovesse sfuggirci, basterà assicurarci che tutta la gente intorno sorrida. È dal numero dei sorrisi tra le persone, parafrasando Maria Teresa di Calcutta, che ci accorgeremo che tutto va bene.
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