Voglio vedere che sei costante almeno nel prenderti cura di te stesso. Come fai a prenderti cura di noi se non ami te per primo? Sono le parole di Livia, Sabrina Impacciatore, a Paolo, Claudio Santamaria, nella nota scena del film del 2010 Baciami ancora di Gabriele Muccino. Paolo cerca in tutti i modi di riconquistare Livia. Ma Livia ha un figlio e conosce le responsabilità. Le stesse che sono sconosciute a Paolo che non ammette i suoi limiti di una personalità irascibile e sofferente che lo porteranno ad una tragica fine. E’ una scena vista e rivista. Quanti di voi l’avranno vissuta con persone che cercano di insinuare negli altri i sensi di colpa di aver tradito e abbandonato una relazione? A tutti i livelli, non solo nelle relazioni intime, la mancanza di un vertice di osservazione rispetto ai propri comportamenti è causa di fallimenti e di dolori immensi. Che muovono dal medesimo principio: sono gli altri che non vanno bene e che meritano, per questo, di essere puniti. Ma è davvero così?
Fatti di cronaca
Le pagine della cronaca sono ricche di episodi tragici che vengono causati dalla degenerazione di situazioni simili a quella descritta.
Nel femminicidio per gelosia, tema attualissimo, la spinta decisiva è l’oggettivazione della donna che viene deprivata della sua dignità. L’uomo, nella sua follia, sente forte il possesso, dal cui vortice patologico non ammette che la compagna desideri uscire. Attribuendo a lei le colpe del fallimento della sua esistenza, le riversa contro tutto il suo rancore. In altri casi, come quello di cui si racconta nel film in copertina, la rabbia viene riversata contro se stessi, fino al suicidio. Un atto che denota una patologia latente e quasi mai diagnosticata. La sofferenza che origina la scelta può rappresentare
- una punizione dell’altro, a cui il suicida lascia i sensi di colpa di non aver fatto nulla per salvarlo. In alternativa, è
- una punizione di se stessi, per il fatto di aver preso contezza del male arrecato. Ma questo è un caso più raro, anche in letteratura giudiziaria. Infine, può dipendere
- dal senso di inadeguatezza che si percepisce, rispetto a se stessi, alle aspettative degli altri e al mondo circostante.
Intendiamoci. In tutti i casi, abbiamo davanti situazioni al limite, quasi sempre, secondo psichiatri e criminologi, costellate da molti segnali patologici a cui nessuno riesce a prestare sufficiente attenzione.
Non accade solo negli scenari opprimenti. Su altra scala, il discorso investe la quotidianità delle nostre relazioni.
La consapevolezza di sé
Da che cosa sono pregiudicate molte delle nostre relazioni? Tra colleghi, tra amici, nelle relazioni educative e d’aiuto, con i partner. Uno degli elementi chiave è la mancanza di consapevolezza di sé. Spesso questo riguarda anche più persone che prendono parte alla stessa relazione. L’incapacità di vivere e riconoscere le emozioni, specialmente quelle distruttive, e porre un giusto freno prima che diventi troppo tardi è, infatti, alla base dei comportamenti di rottura e conflitualità.
Se siamo felici, questo moto si esaurisce in breve tempo (non è forse vero che la felicità dura un attimo?). Ma se siamo arrabbiati, no. Siamo esseri umani dominati da passioni e quelle più diffuse, e funzionali all’evoluzione della specie, sono l’orgoglio e il pregiudizio. Ad esse, sono associate emozioni come rabbia e paura, emozioni distruttive che a fatica si riescono a dominare.
Serve grande intelligenza emotiva per portare al livello della ragione un’emozione negativa e farla rientrare. Ma bisogna conoscersi per riuscirci. Bisogna conoscere le proprie reazioni sotto stress per dire a se stessi “ecco, sento che arriva”. E trovare un rimedio che funzioni a non farsi pervadere dall’impulso di fare a pezzi il mondo.
A che serve?
Ecco a che serve la consapevolezza di sé. Per questo non si possono amare gli altri se non si ama prima se stessi. Nè si può comprendere gli altri senza avere consapevolezza di sé. Perché avere consapevolezza di sé già implica ammettere una linea di separazione tra sé e gli altri. Ammetterne le diversità e accoglierne i punti di vista.
Se manca questo, finiamo per proiettare sugli altri le proprie emozioni negative e ci pregiudichiamo la possibilità di entrare in empatia con loro. Fino a non sentire più la sofferenza del malessere che procuriamo, restando concentrati solo sul nostro. Per questo colpevolizziamo, a volte, quelle persone a noi care che sembrano non volerci proprio capire. Se ci pensate, è così che finiscono buona parte delle relazioni.
Ecco: la gente non si ama ma vuole essere amata. Non si conosce ma pretende di essere compresa. E questo è impossibile.
Una volta si raccontava la barzelletta di un automobilista che, per radio, ascoltava il notiziario. All’improvviso sentì di un pazzo che sfrecciava contromano in autostrada. E lui, schivando le auto in senso opposto: “Un pazzo? Qui sono centinaia!
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