All’età di 11 anni, nei pomeriggi estivi, quasi tutti i giorni giocavo con i miei coetanei a calcio nel campetto del grano, affianco alla Scuola elementare del mio paese, nella via della Stazione. Io ero il capitano perché portavo il pallone. Nella mia squadra, Francesco, di tre anni più grande, da due ripetente in prima media. Lo chiamavano Jumbo per via delle orecchie a sventola (i bambini sanno essere davvero feroci!) ma lui non si arrabbiava. Anzi, ci guardava con un sorriso inebetito, quello di uno che non sai se “ci è o se ci fa”.
E forse per questo mi rifilò una pallonata in pieno naso che ricorderò per tutta la vita. Insomma, ero di fronte a lui, compagni di squadra e in un campo lungo non più di trenta metri non serviva un rinvio che oggi avrebbe spedito la palla in curva a San Siro. Poi un giorno si presentò con in mano una fetta di pane fatto in casa condito con le cicorie avanzate a pranzo e non ebbi più dubbi: Francesco “ci era!”
Ogni tanto lo incontro ancora oggi. E’ rimasto uguale a prima. E quando dico tra me e me che vorrei essere nella testa di uno senza pensieri, mi torna in mente la sua faccia.
Forse la scienza non dirà mai se uno come Jumbo avrebbe avuto una speranza, tolto da quel contesto messo altrove. Più facile che abbia avuto da sempre un forte ritardo. Ma figurarsi se a 11 anni potevamo farci queste domande!
La scienza però, nel frattempo, ha dimostrato con G. Edelman, che ogni corredo mentale rimaneggiato con gli stimoli esterni e che il nostro cervello impara ad ogni età.
Non potete immaginare, dunque, quanto apprezzi il lavoro che fa mia moglie con nostra figlia, mentre assisto all’esposizione ad ogni sorta di stimolo che fanno di Maria Lucia una bimba sveglia e felice.
Il corredo genetico ha la sua importanza. Ma l’allenamento è vita.
Come allenare il nostro cervello?
Per crescere in elasticità il nostro cervello deve lasciarsi guidare dagli stimoli esterni, gli stessi che hanno il potere di modificare la sua struttura e le funzionalità per effetto dell’attività dei neuroni (come dice la teoria della plasticità neuronale). Allora, diciamo meglio: tutto quello che facciamo durante la nostra vita apporta cambiamenti. E questa è una certezza scientifica ormai sin dalle prime fasi di crescita del bambino, con processi che cambiano da persona e persona, in base all’esperienza, alla formazione, all’ambiente in cui si vive e in base alle inclinazioni naturali di ognuno.
Howard Gardner, lo studioso delle Intelligenze Multiple, osservò che persone diverse esprimono talenti diversi. Non esiste, dunque, un’unica forma di intelligenza (quella misurabile in termini di QI, per intenderci), in quanto, fin da subito, in ogni individuo compaiono attitudini e propensioni che ne generano sempre di nuove. Il che varia il personale accesso a quelle risorse che chiamiamo “intelligenza”.
Secondo Gardner, ogni individuo tende a sviluppare naturalmente più una forma di intelligenza rispetto alle altre; durante il percorso di vita, però, anziché dedicarsi a sviluppare le abilità minori e quindi raggiungere una sorta di completamento intellettivo, continua a potenziare quelle a lui più familiari. Se, perciò, siamo da “pane fatto in casa e cicorie”, allora vuol dire che ci va bene evolverci fino a quel punto. Almeno in un certo senso, atteso che oggi tutti studiano e molti, in un modo o in un altro, alla fine portano a casa una laurea.
Da quanto è dato osservare e le ricerche confermano, tuttavia, non è nell’acquisizione di competenze “alte” (quelle concernenti la logica e la razionalità) che si nasconde il segreto dell’intelligenza ma nella declinazione di queste ultime con abilità di tipo emotivo e creativo (competenze basse). Quando capita a noi, da adulti, non facciamo altro che riproporre processi di pensiero molto rigidi: in maniera quasi schematica tendiamo ad acquisire informazioni, analizzarle, elaborarle e trarne delle conclusioni, trascurando il ruolo fondamentale dell’inconscio.
Per evolverci davvero, infatti, abbiamo bisogno di entrambe le intelligenze: quella conscia, razionale, e quella inconscia, emotiva.
Proprio l’inconscio, infatti, è il primo ad apprendere (senza però informarci) e a condizionare le nostre decisioni sulla base delle esperienze pregresse, attraverso la registrazione dei segnali emotivi che anticipano i contenuti di ogni messaggio. Ed è così che noi impariamo.
L’apprendimento, infatti, è un processo che coinvolge entrambe le dimensioni, cosciente e incosciente. E’, dunque, il risultato di una strategia che, come talune abilità, può essere continuamente perfezionata. In altre parole, si può imparare ad imparare.
Il “come” è tutta una questione di quale competenza si sente di aver bisogno di rinforzare.
Ma quello che è certo è che non smettiamo di apprendere. Diventiamo stanchi, vecchi e logori e continuiamo ad imparare. E’ un circuito virtuoso che ci porta a diventare i primi della classe un attimo prima di salutare tutti e uscire di scena definitivamente.
Anche se potremmo non rendercene conto.
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