Come osserva il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer (nella foto), la parola come dialogo, come terreno comune, è tipica della cultura occidentale, e, in particolar modo, della democrazia. Il dialogo, infatti, è completamente assente nei testi sapienziali delle culture d’Oriente (che prediligono il monologo), in cui il concetto di democrazia appare teorico e astratto, mentre nelle culture d’Occidente, nate sul modello dell’antica Grecia, prevale un’idea di società che si fonda sul dialogo, sull’ascolto, quindi, sulla necessità di apertura per poter comprendere il punto di vista dell’altro. Così, mentre nelle monarchie orientali la parola non può essere interpretata, è già data e va soltanto ascoltata e presa alla lettera per come il capo spirituale della religione vigente stabilisce che debba essere interpretata, in democrazia, per mezzo del dialogo, sono ammessi con la stessa facilità il consenso e il dissenso.
La qualità della relazione
Certo è che, nell’interazione tra due o più persone, attenzione all’altro e qualità della relazione sono essenziali. È in tale clima che si possono sviluppare i due aspetti fondamentali del dialogo: la domanda da una parte e la risposta dall’altra.
Domandare vuol dire letteralmente mandare fuori e significa, in senso figurato, “affidarsi, confidare, mettere in mano”. Deriva dal latino in manus dare. In questo caso, dunque, la parola descrive un’azione che chiama in causa un altro individuo dal quale ci aspettiamo che ci restituisca la stessa fiducia che noi riponiamo in lui. Solo in un secondo momento il verbo comincia a designare l’atto di porre una questione in termini letterali.
Quando noi domandiamo, consegniamo sempre qualcosa di importante nelle mani di qualcuno, confidando nel fatto che questi sia in grado di prendersene cura e di restituircelo nelle medesime condizioni, se non addirittura in condizioni migliori.
Sacralità della parola
Se, dunque, domandare significa riporre fiducia in qualcuno, confidando che si prenderà cura di quel qualcosa che gli affidiamo, la risposta (stando all’etimologia antica del latino respondeo) indica un’azione investita di grande sacralità. Rispondere è un atto di responsabilità che investe la persona a cui viene posta la domanda, la quale è chiamata a rispondere in maniera etica, morale a quell’atto fiduciario, fornendo quello che noi oggi definiamo, con un termine globalizzato, feedback. Respondeo è, dunque, un verbo sacro perché rappresenta la risposta a un patto.
Il dialogo stesso, allora, è un atto fiduciario perché si celebra sempre tra chi chiede cura e chi ricambia questa richiesta di fiducia mantenendo la promessa di dare ascolto.
Ecco, dunque, che per poter dialogare è indispensabile l’impegno alla reciprocità da parte di tutti. Ed è questo in fondo che ci lega agli altri: la disponibilità
- ad accogliere,
- a essere aperti,
- a comprendere e
- a rispondere,
a restituire, quindi, con la medesima intensità ciò che ci viene mandato.
Domanda e risposta
Il che vale tanto sia quando siamo noi come formatori a mandare (quindi a domandare) ma anche e soprattutto quando una richiesta esplicita, verbale o implicita, silenziosa, emozionale dovesse giungerci dagli altri. Certo, rispondere a una richiesta implicita che ci può arrivare dagli altri, una richiesta che può non essere formulata sul piano verbale. Magari
- posta con il corpo,
- con lo sguardo,
- attraverso un non-verbale o un paraverbale che potremmo non riuscire a decodificare subito…
Ogni modalità di comunicare ci obbliga ad affinare degli strumenti con cui abbiamo meno dimestichezza, ad addestrare quella sensibilità che ci servirà per entrare in empatia, la dimensione che costituisce il momento più alto di ogni relazione.
Se, dunque, la parola è una parabola, un ponte, un collegamento, essa può essere usata sia per comunicare qualcosa (e chiudere lì il dialogo) sia per aprirci a qualcosa di sacro, a una parola più elevata, che può costruire una relazione. Poesia (che deriva proprio da parola) significa esattamente questo: un atto più alto di comunicare utilizzando la parola.
La parola è poesia
Ogni parola, allora, si erge a poesia se diventa un atto così alto da creare unione, vicinanza e facilitare il terreno su cui può nascere il dialogo. Ecco perché va scelta con grande cura per evitare che trasmetta, per contro, indifferenza, noncuranza e, in alcuni casi, anche lontananza, separazione, abbandono.
Questo ci fa comprendere che duro compito abbia oggi la scuola: trasformare i parlanti in poeti per il bene del mondo, recuperare la parola nella sua etimologia più autentica e completa per restituirle il senso stesso che può essere d’aiuto ai ragazzi. È il senso profondo delle cose che rappresenta, infatti, l’inestimabile ricchezza per l’uomo. E le parole sono portatrici
- di senso profondo,
- di emozioni e
- di un potere straordinario
che rinvigorisce le dimensioni essenziali della relazione: la fiducia e il rispetto.
Se la parola è manipolata
Oggi, però, assistiamo all’asservimento della parola agli scopi dei grandi comunicatori che fa da contraltare all’impoverimento lessicale delle masse che, in quanto fenomeni accostabili l’uno all’altro, spiegano il sempre più frequente furto di democrazia.
- Vediamo parole perdere di significato o usate impropriamente.
- Apriamo bocca quando dovremmo tacere, sprecando delle occasioni imperdibili di restare in silenzio e ascoltare.
- E restiamo in silenzio quando veniamo depredati e dovremmo ribellarci.
Il fatto è che non sappiamo che fare perché, da quando abbiamo dismesso la parola, sostituita dagli emoticon e dalle abbreviazioni, abbiamo anche abbreviato (fino ad azzerare) la capacità di pensiero. Normale, allora, che si scelga la via più semplice: danneggiare e distruggere le relazioni.
Le parole che ci salvano
Le relazioni, viceversa, per sopravvivere, hanno bisogno
- della parola giusta,
- detta al momento giusto e
- nel modo giusto.
Perché la parola è soggetta a interpretazione. Perché, se si insinua il dubbio dell’interpretazione, vuol dire che possiamo fare di meglio. Perché è mia precisa responsabilità porre in essere tutte le attenzioni al modo in cui dico quello che dico, affinché quest’interpretazione non lasci in alcun modo spazio all’equivoco e prevenga il conflitto e la rottura.
La parola deve conservare il compito di cementare i rapporti. Educare alla parola che unisce: una bella sfida per genitori, educatori, insegnanti e formatori che coltivano il sogno di consegnare al prossimo un mondo migliore.
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