Le parole che usiamo (e quelle che evitiamo accuratamente di usare) definiscono la nostra identità. Cioè, noi siamo le nostre stesse parole. Significa che la nostra autobiografia si definisce intorno a esse. Al loro interno, dunque, abitano il nostro passato, la nostra storia, la nostra memoria, le nostre emozioni. Vi abitano tutte le esperienze che, da autobiografiche, diventano incontro, socialità, dialogo. E che vivono con maggiore forza e risonanza grazie ai linguaggi analogici che le rendono esplorabili.
Parole e pensiero
Senza capacità di parola, pensare ed esprimersi con chiarezza è impossibile. Perciò, occorre scegliere bene le parole che ci servono per comunicare con gli altri. Almeno, tra le duemila che conosce e usa un italiano di media cultura.
Più parole (sono un milione circa quelle della lingua italiana, di cui quattrocentomila d’uso enciclopedico, quarantamila nel vocabolario), tuttavia, significano più libertà, maggiore capacità di pensiero, maggiore chiarezza in chi le proferisce e in chi le recepisce, maggiori possibilità d’interpretazione e di narrazione della realtà. Perché le parole sono ben più di semplici atti comunicativi.
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Parole e identità
In quanto esseri umani dotati di linguaggio verbale, come spiega nel suo saggio Nel segno della parola il mio amico Pietro Reina, dovremmo, infatti, riflettere un po’ di più sul fatto che la lingua definisce la nostra identità profonda (racconta chi siamo e da dove veniamo), ci aiuta a riconoscerci come appartenenti alla stessa tribù (forse ricorderete la scena della cadrega di Aldo, Giovanni e Giacomo), ci distingue dallo straniero.
E poiché alle parole è demandato il compito di creare relazioni e accorciare le distanze descrivendo opportunamente la realtà, interna ed esterna ai soggetti che le usano, ciascuna di esse va scelta con grande cura.
Ecco perché ogni nostra parola ci qualifica come persone capaci di
- comprendere,
- facilitare,
- ammettere,
- accudire,
- accogliere,
- tollerare,
- ascoltare,
- includere,
- integrare,
- contenere,
- rispettare,
- aprirsi all’altro da sé e
- amare.
Per contro, se usata male, la stessa parola tradisce
- noncuranza,
- indifferenza,
- abbandono,
- prevaricazione,
- stigma,
- conflittualità,
- esclusione,
- disintegrazione,
- tradimento,
- chiusura,
- pregiudizio,
- intolleranza,
- odio.
Naturalmente, vale anche per i gesti. Ma la parola tutto ciò lo comunica inequivocabilmente. Abbiamo, dunque, una grande opportunità nella scelta del nostro linguaggio.
Etimologia del lemma
Parola deriva anche da parabola: il termine, dunque, indica un percorso da me a te, tragitto lungo il quale la bellezza del linguaggio costruisce relazioni sane, mentre il suo contrario le pregiudica.
Scegliere quelle giuste, visto che le parole non sono tutte uguali, è, allora, una capacità che si acquisisce nel silenzio (lo stesso – guarda caso! – in cui nasce il processo creativo). Nel caos del nostro tempo se ne può solo perdere di vista lo straripante potere e usarle a vanvera.
Il silenzio, la miglior parola
Il silenzio, d’altro canto, è molto spesso la parola migliore. La parola taciuta possiede, infatti, la saggezza dell’ascolto e del dubbio,
- pericolosi nemici del tiranno e dell’ignorante,
- inaccessibili allo stolto,
- inammissibili per il saccente e il presuntuoso,
innamorati della propria voce, che mai comprenderanno quanto essa sia capace di azione. Di celare e rivelare, dunque, come di fare e distruggere.
Riflettere la parola è, invece, prerogativa
- dell’ecologia della comunicazione (che ingentilisce i tratti del viso a dispetto delle rughe degli anni, più marcate nell’iracondo e nel verbalmente violento),
- del mondo che vogliamo cambiare e
- della conoscenza nella dotta ignoranza (sapere di non sapere)
che si scopre nel dialogo interiore, franco e salvifico. È nel silenzio rigeneratore e creativo, rallentando i ritmi frenetici, che scopriamo ad ogni piè sospinto di essere esattamente ciò che scegliamo di dire.
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