La storia di Shahrazad, con cui si aprono i racconti delle “Mille e una notte”, è il trionfo della parola sul corpo, dell’astuzia e dell’intelligenza femminile sul fascino fisico esercitato dal piacere carnale. La fanciulla conquista il sultano non con la dolcezza dei suoi atti amorosi ma con il garbo e con il fascino delle parole che seducono la mente e il cuore. Con il suo incipit “Sire, c’era una volta…”, Shahrazad introduce un viaggio fantastico di intelligente seduzione che piace a chi si concede il tempo di gustare il valore della parola.
Le Mille e una notte
C’era una volta un sultano che, un bel giorno, partì per un lungo viaggio, lasciando la moglie da sola in casa, affidata alla compagnia delle sue amiche.
Durante l’assenza del marito, la moglie pensò bene di abbandonarsi ai piaceri del corpo. Il che le costò la vita, dato che, al suo rientro, il sultano la fece prontamente decapitare. Non solo: da quel momento, l’uomo ebbe in odio il genere femminile e ordinò ai suoi servitori che ogni notte gli fosse portata una giovane con cui giacere che avrebbe fatto giustiziare il mattino seguente.
Passò del tempo e morirono tante ragazze. Finché un giorno, Shahrazad, una fanciulla di rara bellezza e di rara intelligenza, si offrì come volontaria per interrompere la strage delle vergini. Ella giacque tutta la notte con il sultano ma, prima del sorgere del sole (che avrebbe significato la sua fine), iniziò un lungo racconto che catturò tutta l’attenzione del sultano. Il sole era sorto e Shahrazad non aveva ancora terminato l’avvincente storia che il sultano chiese di poter ascoltare ancora la notte seguente. E l’altra ancora e ancora… fino a che i due non si innamorarono e si sposarono, interrompendo così la strage delle fanciulle.
Il trionfo della parola
Sulla scorta di questo insegnamento, dovremmo ricordarci che possediamo un potere enorme se ci riappropriamo del valore delle parole che spendiamo all’indirizzo degli altri. Perché le parole non sono tutte uguali: esse, è vero, comunicano ma, al tempo stesso, sono autentici atti identitari.
- È grazie alla parola che stabiliamo limiti e confini, definiamo chi siamo e a quale tribù apparteniamo, sia noi che gli altri.
- Con le parole, allontaniamo ed escludiamo il diverso e ci stringiamo intorno a chi è simile noi.
- Possiamo perfino dire che le parole, mentre descrivono la realtà e comunicano, servono per definirci come esseri sociali. E lo fanno all’interno di una narrazione che è la nostra storia, ciò a cui tutti sono sensibili.
Con il suo insegnamento, Shahrazad ci permette, allora, di riappropriarci dell’enorme potere che possiede la parola in quanto atto comunicativo, cosa che abbiamo perso di vista, al punto che oggi essa viene utilizzata impropriamente, specie sul web, dove imperversa l’uso aggressivo e offensivo dei termini. Eppure è proprio attraverso la parola che portiamo la nostra identità nel mondo, raccontandoci esattamente come in una straordinaria fiaba.
La parola ai tempi del web
I social network, ad esempio, hanno cambiato molto il nostro modo di comunicare, al punto che nascono innumerevoli neologismi per descrivere un fenomeno che sta modificando il sistema stesso delle relazioni. Lamberto Maffei, nel suo libro “Elogio alla parola”, spiega che in Cina gli smartfonisti vengono chiamati, con un termine che suona come uno scioglilingua che, in italiano, può essere tradotto con la perifrasi “quelli che vivono con la testa china”.
Oggi, in effetti, chi vive in simbiosi con la tecnologia e di comunicazione digitale è costantemente impegnato ad interagire con il proprio smartphone. Nelle grandi città, addirittura la segnaletica stradale è pensata per avvisare tutte le persone che distrattamente si muovono con la testa china dell’esistenza di ostacoli lungo il percorso pedonale. Così come vengono avvisati anche gli automobilisti di fare attenzione a non investire la gente “con la testa china”.
Ecco, nell’era in cui la comunicazione è diventata digitale, nell’era in cui le parole si usano molto meno, c’è un modo per dire qualunque cosa senza utilizzare le parole. “Ti amo”, “ti mando un bacio”, “mi piace”, “son d’accordo con te”, “grazie”, “prego” non richiedono più parole. Bastano i simboli.
I centri del linguaggio digitale
Viene, allora, da chiedersi se dopo questi millenni di evoluzione del genere umano in cui si sono sviluppati i centri del linguaggio, se tra qualche tempo non si svilupperanno i centri di una comunicazione digitale anche nel nostro cervello.
La vita cambia. I tempi cambiano. La comunicazione cambia. Ma le relazioni (e la necessità di intrattenerne di positive) restano. Conviene, perciò, non dimenticare, mentre ci apriamo al nuovo che avanza, che ancora oggi siamo in tempo a coltivare e insegnare il valore della parola e, con esso, l’enorme opportunità di utilizzarla correttamente. Perché la parola è pensiero e viceversa.
- Se parliamo male è perché non sappiamo pensare.
- Se impariamo a pensare bene (e qualcuno ce lo insegna), non possiamo che parlare bene.
Sia con noi stessi ma anche quando ci relazioniamo agli altri, vista la nostra naturale inclinazione di aspirare alla felicità (che passa per le nostre relazioni con il mondo).
Nessun simbolo mai, nessuna emoticon mai potrà, dunque, sostituire la parola.
Io resto analogico
È così che ribadisco l’importanza di una comunicazione reale, emozionale. Una comunicazione con intelligenza emotiva verte, infatti, sul un recupero del valore della comunicazione analogica all’epoca della comunicazione digitale. Servono, cioè, relazioni autentiche, reali, specialmente in un momento in cui il mondo sembra volerci portare dalla parte opposta, sul versante del virtuale.
Con l’auspicio che la scuola torni (o, se volete, continui) a essere, senza derive riduzioniste, la scuola della “parola parlata”.
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